lunedì 31 marzo 2014

UN SOGNO IN PUNTA DI PENNA: LO SPECCHIO NELLO SPECCHIO DI MICHAEL ENDE

Che cosa accade di un sogno, quando colui che lo sogna si desta? Finisce nel nulla? Non esiste più? Ma io voglio uscire di qua…sul serio! Non voglio più sognare di esserci. Non voglio neppure farmi sognare chissà da chi. O forse non facciamo altro che sognarci a vicenda? Un intreccio di sogni, un groviglio senza confini, senza fondo? Siamo tutti un unico sogno che nessuno sta sognando?

Lo specchio nello specchio di Michael Ende (edito per la prima volta nel 1984 e pubblicato in Italia dalla Teadue giungendo nel 2009 alla sua ottava edizione) è un libro strano: l’autore intesse, con straordinaria perizia narrativa, trenta racconti onirici, privi di titolo e legati l’un l’altro da un impalpabile ed enigmatico fil rouge.
Quella tratteggiata da Ende è  una dimensione parallela e simbolico-allegorica, si tratta tuttavia di simboli e allegorie, che hanno l’intrinseca necessità di essere riempite di significato dal lettore, ma che talvolta rimangono vuote come magnetici buchi neri.
La dimensione del sogno è amplificata da quella del labirinto: “soltanto chi lascia il labirinto può essere felice ma soltanto chi è felice può uscirne”,  si legge nel secondo racconto,  Lo specchio nello specchio  è infatti un labirinto di parole e di immagini che imprigiona i suoi surreali protagonisti insieme ai lettori che decidono di confrontarsi con le loro vicende, ricercando un senso che talvolta credono di afferrare, ma che rimane denso ed oscuro, fino all’ultima parola di questo enigmatico crogiuolo di  storie.
Non resta che arrendersi a questo insolito ginepraio in cui suggestioni classiche e motivi religiosi si incontrano e si scontrano con il senso dell’inconoscibile e del tempo che passa, in un amalgama surreale e visionario che trae la sua linfa anche dalle opere del padre di Ende, il pittore surrealista Edgar (a cui del resto questa raccolta è dedicata) quasi a voler essere una sorta di trasposizione verbale dei suoi quadri.
Tuttavia questo senso di impotenza e di apparente inutilità davanti a delle vicende incomprensibili lascia perplessi, il lettore deve diventare una sorta di specchio in cui queste storie si riflettono e rimbalzano nella loro cangiante enigmaticità, si trova infatti davanti a un affresco di parole in cui agiscono creature mostruose eppure latrici di una straordinaria e misteriosa armonia, si verificano avvenimenti apparentemente privi di senso, i personaggi sono risucchiati in spazi indefiniti e luoghi infiniti ed ogni cognizione spaziotemporale è definitivamente perduta.
Questa dimensione parallela, labirintica ed inquietante coincide inaspettatamente con la nostra realtà, come attestano le parole della misteriosa ragazza dell’ultimo racconto:

“Crede davvero che il mondo qui fuori non appartenga già al labirinto? L’esistenza di questa porta fa sì che non ci siano più un davanti e un dietro. Anche questo mondo non è altro che uno dei tanti mondi che lei ha sognato e sognerà ancora.”

Certamente Lo specchio nello specchio  non è un libro piacevole, è piuttosto una lettura faticosa e inquietante. Michael Ende ha abbandonato il regno di Fantàsia della sua  Storia Infinita e la città senza nome di Momo e dei Signori grigi per calarsi in una realtà surreale ed indecifrabile, ha scelto di affrontare una strada diversa e più matura rispetto a quella percorsa con i suoi romanzi più famosi e suggestivi; una strada difficile e tortuosa, un labirinto senza uscita…
Il singolare fascino di questo tipo di  scrittura così sinistro e inquietante non rende tuttavia  Lo specchio nello specchio un libro indimenticabile: alcuni  racconti rimangono impressi nella memoria come ritratti, non privi di suggestioni musicali, come la vicenda del giovane medico e del monstum  armonioso, o ancora quella dello sposo che deve raggiungere la sua sposa attraversando una stanza infinita, e la storia dell’uomo dagli occhi di pesce; tuttavia la trama di questo dedalo di parole rimane troppo esile rispetto delle maestose allegorie che Ende è riuscito a costruire nei suoi romanzi più famosi.

Un libro da ascoltare, con cui confrontarsi con pazienza, una lettura suggestiva e uno straordinario gruppo di affreschi, che tuttavia può anche  lasciare delusi, dipende tutto dal lettore: perché  è lui che ha scelto la via del labirinto, ma ogni lettore ne rifletterà un’immagine diversa, a seconda della sua sensibilità.

domenica 23 marzo 2014

Un classico ritrovato: Scorciatoie e raccontini di Umberto Saba

Pubblicate per la prima volta nel 1946, incluse nel volume mondadoriano che raccoglie tutte le prose di Umberto Saba curato da Arrigo Stara nel 2001, le  Scorciatoie e raccontini, brevi prose scorciate che coniugano il rigore logico dell’aforisma con la densità visionaria e coloristica della prosa narrativa, hanno da qualche anno conosiuto una seconda giovinezza: sono state infatti ripubblicate da Einaudi nell’aprile del 2011, in uno smilzo volumetto dalla copertina verde, in cui è possibile leggere (o rileggere, per chi già le  conoscesse) una delle più innovative opere del poeta triestino, autore del celebre  Canzoniere, che in questi suoi 165 brevi, e brevissimi, scritti aforistico-narrativi, cui fanno seguito 14 singolari storielle dal taglio lievemente più lungo, si rivela anche un grandissimo prosatore.
Nella sua Storia e cronistoria del Canzoniere  (1946) Saba, accennando allo scarso successo sortito da Scorciatoie e Raccontini,  dichiara che queste prose  hanno “le radici nell’Ottocento e la testa nel 2050”, e in una lettera alla figlia Linuccia, risalente al 30 Novembre 1945, sempre parlando di Scorciatoie, l’autore triestino si esprime in questi termini: “È più che un bel libro; è il libro del Novecento, come Candide fu il libro nel quale si assomma il Settecento. Pochi, assai pochi lo capiranno. Ma l’opera è vitale… come lo fu il tuo povero padre”.
Saba considerava quindi Scorciatoie e raccontini un’opera d’importanza capitale, del resto è vero che, sebbene questa raccolta affondi le sue radici nel diciannovesimo secolo, è effettivamente  proiettata verso il futuro, e verso un pubblico giovane, in grado di affrontare un tipo di narrativa innovativa, che non vuole solo essere letta, ma ha il fisiologico bisogno essere vissuta in ogni sua parola; proprio per questo motivo anche la grafia  di Scorciatoie e raccontini è connotata in una maniera che potremmo definire sentimentale, ed è portatrice di significati complessi e profondi.
Per comprendere la densità di  quest’opera si leggano la prima e la seconda  scorciatoia in cui l’autore riconosce la complessità grafica ed argomentativa delle sue brevi prose: 
 
1 GRAFIA DI SCORCIATOIE Sono piene di parentesi, di - fra lineette - di “fra virgolette”, di parole sottolineate nel manoscritto e che devono essere stampate in corsivo, di parole in maiuscolo, di “tre puntini”, di segni esclamativi e di domanda. Che il proto prima, e il lettore poi, mi perdonino. Non so più dire senza abbreviare; e non potevo abbreviare altrimenti.
 
2 SCORCIATOIE Sono – dice il Dizionario – vie più brevi per andare da un luogo ad un altro. Sono, a volte, difficili; veri sentieri per capre. Possono dare la nostalgia delle strade lunghe, piane, diritte, provinciali.
 
Scorciatoie e Raccontini, che Saba dice di aver scritto in collaborazione con Nietzsche e Freud (ma nel quale è possibile rintracciare anche degli echi leopardiani) non è solo un’opera in cui l’autore triestino mette in mostra tutte le sue conoscenze psicoanalitiche, in una sorta di utopistica progettazione di una nuova società; è in primo luogo una raccolta di prose scorciate e di favolette contemporanee e senza tempo, in cui Saba fornisce una propria interpretazione di fatti, personaggi ed opere letterarie osservando la società che lo circonda, ed esprimendo giudizi taglienti e dissonanti nei confronti di autori osannati dai suoi contemporanei come Francesco Petrarca, Stephan Mallarmè, Giovanni Pascoli o  Alberto Moravia.
Nelle sue pagine, che sono un dolceamaro frutto in cui si percepiscono “le lacrime ed il sangue” del poeta triestino scampato alle persecuzioni della guerra, Saba disegna inoltre un acuto ed impietoso ritratto dei totalitarismi e dei loro principali fautori, rivelandosi un fine esegeta ed un sensibile interprete della realtà in cui vive.
Le Scorciatoie ed i raccontini sono quindi dolci e dolorosi, infatti dietro a una similitudine o ad un’affermazione paradossale e bizzarra nascondono profondi coni d’ombra,  che possono anche turbare ed amareggiare un lettore sensibile, e rivelano la loro talvolta sconcertante attualità, nonostante siano state concepite da Saba in un definito periodo storico (Il fascismo ed il secondo dopoguerra).
Ma  Scorciatoie e raccontini sono soprattutto un immenso messaggio d’amore, che Saba affida con fiducia ai suoi lettori, perché crede fermamente che le generazioni del futuro potranno capirlo, e saranno disposte ad ascoltarlo.
Sarà vero? Noi pensiamo di sì; perché, sebbene la società contemporanea abbia sempre una gran fretta, e la fretta sia notoriamente una cattiva consigliera, nella lettura di Scorciatoie e Raccontini, come in qualsiasi altro tipo di azione, la nostra generazione è più curiosa e disinibita e potrebbe essere pronta ad affrontare le parole, leggere come farfalle e pesanti come macigni scritte da un anziano, eppur giovanissimo, Umberto Saba.


lunedì 10 marzo 2014

Ciao Harry! Riflessioni (sentimental-letterarie) al termine di un percorso di letture Potteriane (seconda parte)




2. Dalla saga alla trilogia

A ben vedere sono soprattutto gli ultimi tre episodi della Saga di Harry Potter a costruire un percorso omogeneo, in cui la storia fluisce con maggiori interconnessioni. Questo non vuol certamente dire che gli altri romanzi presentino delle pecche d’integrazione, semplicemente i toni che li caratterizzano sono diversi.
La Pietra Filosofale e La Camera dei segreti sono di fatto i romanzi del crepuscolo dell’infanzia di Harry, anche il confronto che instaura con il Signore Oscuro è indiretto (nel primo episodio) e mediato dai ricordi adolescenziali di quest’ultimo (nel secondo episodio).  Il prigioniero di Azkaban è già altra cosa rispetto ai primi due romanzi,  non solo per le scoperte compiute da Harry, ma soprattutto perché in questo episodio il suo contatto con il male si approfondisce e si complica dolorosamente per  esperienza e agnizione: la scoperta dei Dissennatori è certamente una svolta in tal senso, ma anche quella del ruolo di Crosta/Codaliscia sortisce la sua importanza per il seguito della vicenda.
Il calice di fuoco segna, come abbiamo già avuto modo di accennare, un punto di svolta molto importante in quanto rappresenta il romanzo della reincarnazione del male, ovvero del Signore Oscuro; dal punto di vista narrativo è questo l’episodio che attesta un cambiamento forte all’interno della saga, perché il male acquista delle sembianze e un volto definito benchè indefinibile, sebbene sia appunto con  L’Ordine della Fenice  che si definiscono i ruoli, si innestano collegamenti forti tra bene e male, che non sono solo connessioni oppositive: la vicenda è pronta a mostrare i suoi sviluppi conclusivi.
 Il segno che L’Ordine della Fenice, Il Principe Mezzosangue, e I Doni della Morte,  sono di fatto associabili in una sorta di trilogia della seconda adolescenza di Harry, ci è dato anche dai cambiamenti che si percepiscono nella figura di Severus Piton, personaggio controverso, all’interno della saga, che soprattutto nei primi tre romanzi è una figura diametralmente opposta a quella di James Potter, al quale, tuttavia, a detta di Silente e come si scoprirà nel diciottesimo capitolo del  Prigioniero di Azkaban, deve la vita. Non si intuiscono ancora i risvolti sentimentali che caratterizzeranno l’ultimo episodio della saga, ma già nell’Ordine della Fenice, la Rowling tratteggia un Piton adolescente, bizzarro, timido e infelice, e accenna appena al suo legame con Lily, la madre di Harry.
Il Principe Mezzosangue non è il romanzo di Piton, sebbene questo epiteto gli appartenga, e benché sia lui l’apparente trionfatore nel male della vicenda narrata.
Questo è di fatto il vero romanzo di Lord Voldemort, la cui vita viene passata al setaccio attraverso i ricordi conservati da Silente e riproposti ad Harry nel suo pensatoio. La sua famiglia, l’infanzia dolorosa, il fascino delle arti oscure, il suo bisogno di vincere la morte, sono raccontati in queste pagine che culminano nella ricerca degli Horcrux, oggetti (e soggetti) contenenti pezzi di un’anima fatta a brandelli, dilaniata da sette omicidi, e che l’hanno resa apparentemente immortale, oggettivandola e simbolizzandola di fatto in un piccolo insieme di sinistre morti viventi: Il diario di Tom Riddle, l’anello di famiglia dei Gaunt, il medaglione di Serpeverde, la coppa di Tassofrasso, il diadema di Corvonero, il serpente Nagini e lo stesso Harry sono degli Horcrux, sinistramente significativi anche a livello affettivo per Voldemort.
È nel Principe Mezzosangue che Harry apprende dalle parole di Silente della distruzione più o meno consapevole dei primi due (il diario di Riddle è stato distrutto già nel secondo episodio, e proprio Silente ha annullato i poteri dell’anello dei Gaunt, con conseguenze mortifere) e comincia insieme al Preside ormai agonizzante la ricerca ragionata degli altri, rimanendo tuttavia all’oscuro, fino alla fine che l’ultimo Horcrux da distruggere è lui stesso.

Il Principe Mezzosangue è quindi l’episodio della saga in cui il passato di Tom Riddle/Lord Voldemort, riemerge nella sua straziante e dolorosa verità, ma è anche il romanzo in cui si conclude la vita mortale di Albus Silente, aprendo tanti interrogativi sulla sua persona che saranno risolti solo ne  I doni della Morte.
L’episodio conclusivo della saga appartiene infatti a Silente, istituendo una sorta di opposizione binaria con il Principe Mezzosangue.
In esso gli interrogativi di Harry sul passato di questo grandissimo mago trovano man mano risposta, il ritratto che emerge è di fatto quello di un regista che ha mosso sapientemente le sue pedine per raggiungere un ineffabile quanto indispensabile bene superiore.  Un concetto difficile da interiorizzare per gli altri protagonisti della vicenda, al punto da farlo passare  per un mostro agli occhi del fedelissimo Piton, quando l’uomo scopre qual è il destino di Harry.
Di Silente rimarrà sempre l’impressione che non sia stato detto tutto, se Voldemort è la perfetta esplicitazione del male nato dal dolore della mancanza di una qualsiasi forma di amore e dall’abbandono, Albus è una figura perfetta nelle sue ombre, ha accarezzato il lato oscuro della magia nella sua adolescenziale amicizia innamorata con Gellert Grindelwald, si è comportato da egoista nei confronti dei suoi affetti familiari chiudendosi ai bisogni della sorella Ariana affidata alle cure del fratello Abelfort, e vivendo la sua avventura adolescenziale con quello che sarebbe diventato il suo primo grande nemico dopo essere stato il suo più grande amico, alla ricerca dei Doni della Morte.
Eppure, a ben vedere, proprio la disavventura della sorella Ariana, molestata e rovinata per sempre da tre ragazzi babbani mentre da bambina si cimentava in una innocente magia, e quella del padre di Silente, rinchiuso ad Azkaban dopo essersi vendicato per aver aggredito gli aggressori di sua figlia, rappresentano  il motore che attiva la ricerca di un bene superiore che non può passare per l’odio e per la vendetta, né tantomeno per il potere rappresentato dalla purezza del sangue o dai mitici Doni della Morte che permetterebbero al loro possessore di dominarla.
Harry comprende l’ineffabile necessità di questo bene e la scaraventa davanti ad Abelforth,  ancora turbato e arrabbiato per le scelte compiute dal fratello maggiore mentre rievoca la dolorosa fine di Ariana:

-Scoppiò una lite...io presi la mia bacchetta e lui la sua, e il migliore amico di mio fratello mi inflisse la maledizione Cruciatus...Albus cerco di fermarlo e ci ritrovammo tutti e tre a lottare, e i lampi e le esplosioni la facevano impazzire, non riusciva a sopportarlo...-
Il volto di Abelforth impallidì come se avesse subito una ferita mortale.
-...io non credo che volesse aiutarmi, ma non sapeva quello che faceva: non si chi di noi sia stato, potrebbe essere stato chiunque...e morì-.
La voce gli si spezzò sull’ultima parola e poi si lasciò cadere sulla sedia più  vicina [...]
-Naturalmente Grindelwald tagliò la corda. Aveva già collezionato una bella lista di malefatte nel suo paese e non voleva che anche Ariana fosse messa sul suo conto. E così Albus era libero. Libero dal fardello della sorella, libero  di diventare il più grande mago del...-
-Non è mai stato libero- lo interruppe Harry.
-Come?- Chiese Abelforth.
-Mai- ripetè Harry. “La notte che morì suo fratello aveva bevuto una pozione che lo fece uscire di senno, Urlava, supplicava qualcuno che non c’era.  -Non far del male a loro, ti prego...fai male a me, invece-. [...]
-Credeva di essere di nuovo con lei e Grindelwald, lo so- continuò Harry, ricordando il piagnucolio e le suppliche di Silente. ”- Vedeva Grindelwald che faceva del male a lei e ad Ariana...era una tortura per lui: se l’avesse visto allora, non direbbe che era libero-.
Abelforth sembrava smarrito nella contemplazione delle proprie mani nodose e coperte di vene. Dopo una lunga pausa domandò: - Come fai, Potter,  a essere sicuro che mio fratello non fosse più interessato al bene superiore che a te? come fai a essere sicuro di non essere superfluo, come la mia sorellina?-
Una scheggia di ghiaccio perforò il cuore di Harry.
-Non ci credo. Silente voleva bene a Harry- intervenne Hermione.
-Perchè non gli ha detto di nascondersi, allora?- Ribattè Abelforth. ” Perchè non gli ha detto: -Pensa a te stesso, è così che si sopravvive?-
-Perchè- rispose Harry, prima che potesse farlo Hermione, -a volte  bisogna pensare a qualcosa di più della propria salvezza!  a volte  bisogna  pensare al bene superiore! Questa è una guerra!-[1]

Nel suo ultimo colloquio disincarnato con Harry, che avviene in un non-luogo spirituale simile alla stazione della metropolitana di  King’s cross, Silente riconosce di essere stato un debole nella sua adolescenza e nell’età adulta, tuttavia ha lottato perché trionfassero la giustizia e quella forma di bene scevra da ogni egoismo, onnicomprensiva, affatto priva di spirito di sacrificio, una forma di bene figlia dell’amore inteso come greca agàpe. I Doni della Morte, e in particolare la Pietra della Risurrezione, estremi desiderata di un Silente che non ha mai superato pienamente le sue debolezze di uomo, ma è riuscito a dominarle nello stesso modo in cui ha dominato la Bacchetta di Sambuco, assurgono a simbolo di una battaglia conclusa nella vita vera e piena, consacrata all’amore e vinta dal giovane Harry:

- Lei ha provato a usare la Pietra della Resurrezione-.
Silente annuì.
Quando la trovai, dopo tutti quegli anni, sepolta nella dimora abbandonata dei Gaunt, il Dono che più avevo bramato - anche se in gioventù l’avevo desiderato per tutt’altre ragioni -persi la testa, Harry. Quasi dimenticai che era diventata un Horcrux, che l’anello certamente conteneva una maledizione.  Lo presi e me lo infilai e per un attimo immaginai che avrei visto Ariana, mia madre, mio padre, e che avrei detto loro quanto mi dispiaceva...
- Fui uno sciocco, Harry. Dopo tutti quegli anni, non avevo imparato nulla. Ero indegno di riunire i Doni della Morte, l’avevo dimostrato più e più volte, e questa era la conferma.-
- Perchè?- Chiese Harry. - Era naturale! Voleva rivederli. Che cosa ha sbagliato?-
- Forse un uomo su un milione potrebbe riunire i Doni, Harry. Io sono stato capace solo di possedere il più crudele, il meno straordinario. Sono stato in grado di possedere la Bacchetta e di non vantarmene e non usarla per uccidere. Mi è stato concesso di dominarla e usarla, perchè l’avevo presa non per mio tornaconto, ma per salvare altri da lei.
- Ma il Mantello l’ho preso solo per futile curiosirtà, e quindi non avrebbe mai potuto funzionare per me come per te che ne sei il legittimo proprietario. Avrei usato la Pietra per richiamare indietro coloro che sono in pace, invece che per consentire il saacrificio di me stesso, come hai fatto tu. Tu sei il degno possessore dei Doni-.
Silente battè sulla mano di Harry, che alzò lo sguardo sul vecchio e sorrise; non riuscì a trattenersi. Come faceva ad essere ancora arrabbiato con lui?
- Temo di aver sperato che la signorina Granger ti frenasse, Harry. Avevo paura che la tua testa calda avesse la meglio sul tuo buon cuore, che se tu avessi saputo tutto fin da subito su quegli oggetti tentatori  avresti potuto gettarti sui Doni come feci io, al momento sbagliato, per le ragioni sbagliate. Se dovevi metterci le mani sopra, volevo che li prendessi senza rischi. Tu sei il vero padrone della morte, perchè il vero padrone non cerca dei sfuggirle. Accetta di dover morire e comprende che vi sono cose assai peggiori nel modo dei vivi che morire-.[2]

La complessa vicenda biografica ed emotiva di Silente trova quindi il suo pieno compimento nel martirio di Harry che assurge a figura larvatamente cristologica, pronta al sacrificio per un bene superiore e vera dominatrice della Morte.
Ma anche il coraggioso martirio del professor Piton, che è vissuto e morto  nascondendo la parte migliore di sè e proteggendo Harry in nome dell'amore imperituro per sua madre Lily, è un'altra testimonianza dell'esistenza di quel bene superiore, la cui percezione permette di  oltrepassare anche la paura della morte.

I doni della morte, è senz’altro il romanzo più complesso dell’intera saga di Harry Potter,  anche per i suoi larvati riferimenti alla storia contemporanea: la plumbea atmosfera di guerra che si distende tra le pagine culmina nei chiari riferimenti alla  Shoah, soprattutto quando si fa cenno alla delibera del Ministero della magia, controllato da Voldemort, di tenere sotto controllo la popolazione magica fin dalla giovane età, alla ricerca di un’inaudita purezza del sangue magico.
 La figura del mago oscuro, nato Mezzosangue, si associa automaticamente  e geneticamente a quella di Hitler, persecutore degli ebrei che tuttavia aveva origini ebraiche, in un interessante connubio tra realtà storica e fantasia.
Abbiamo già avuto modo di accennare che Voldemort, cercando di interpretare la profezia sulla sua possibile sconfitta “ha scelto” di segnare come suo pari “il ragazzo che a suo parere aveva più probabilità di costituire un pericolo”: il mezzosangue Harry, preferendolo al purosangue Neville Longbottom; eppure, sarà proprio Neville ad annientare l’ultimo Horcrux, il serpente Nagini, annullando definitivamente  l’immortalità del Signore Oscuro e offrendolo ad Harry ormai privo di difese.
La profezia quindi si rivela sibillina, perché attribuisce ad entrambi i giovani un ruolo fondamentale per la definitiva distruzione di Voldemort.


 3. Una Conclusione  (?)

Concludere la lettura della saga di Harry e dei suoi amici produce una necessaria malinconia: è difficile lasciarli andare, lo è ancor di più quando si è continuamente bombardati dalla versione cinematografica delle loro avventure, e dalle peregrine dichiarazioni della Rowling, che probabilmente afflitta  dalla “sindrome di Torquato Tasso” ha  affermato che dovrebbe riscrivere il romanzo, facendo sposare Harry con Hermione, e distruggendo, a mio parere, il perfetto equilibrio di relazioni e sentimenti che è riuscita a edificare e che consente ad Harry,  Hermione e Ron di costruire un legame d’affetto più solido e articolato, all’interno della famiglia Weasley.
Tuttavia la rivelazione più interessante è stata senza dubbio quella in merito all’omosessualità di Silente, la quale  è tuttavia difficilmente percepibile nella sua relazione adolescenziale con Grindelwall.
Queste annotazioni al margine del mio innocente esercizio di scrittura testimoniano come neanche la Rowling sia in grado si lasciare andare la storia che ha costruito, certamente anche per un tornaconto personale quale quello di mantenere alto l’interesse dei giovani lettori intorno alla sua opera.
Ben venga una riscrittura dei romanzi, si chiariscano i rapporti fra i personaggi, ma rimanga chiaro che tutti questi tentativi sono altra cosa rispetto a quello che è la saga di Harry Potter quale è uscita dalla prima penna della Rowling; una saga che vive ormai di una vita propria e non può ricevere degli aggiustamenti o dei chiarimenti esterni, perché non le appartengono, come non appartengono più all’autrice le parole uscite dalle sue mani: Harry Potter appartiene ai lettori, che non possono fare a meno di riconoscere il fascino senza tempo di questa storia, consacrandola all’altare dei classici e sentendo una profonda malinconia dopo aver passato quasi un anno in sua compagnia (e quasi un decennio insieme ai suoi film).
Ciao Harry! Fortunatamente nulla mi vieta di ritornare a mettere il naso tra le pagine della tua avventura...
...Del resto la tua straordinaria vicenda è anche mia...




[1] J. K. Rowling,  Harry Potter e i Doni della Morte, Milano, Salani, 2013  pp.493-495
[2]Ibidem,  pp.623-624.

lunedì 3 marzo 2014

Ciao Harry! Riflessioni (sentimental-letterarie) al termine di un percorso di letture Potteriane

1. La scoperta di un mondo di carta



Personalmente appartengo a quella parte di pubblico che prima ha visto tutti i film di Harry Potter e in seguito ha deciso che era il momento di conoscere la vicenda autentica dei personaggi che aveva visto crescere nella saga cinematografica.
Ho quindi affrontato la lettura dei sette libri di J.K. Rowling come una lettrice “informata dei fatti”, conoscendo perfettamente il percorso disegnato dall'autrice. Ma allora, chi me lo ha fatto fare? Perché cimentarmi nella lettura di episodi magistralmente rappresentati nei film che mi avevano accompagnato per quasi un decennio?
Probabilmente perché avevo un sospetto: qualcosa non tornava, non tutto era stato detto dalla pellicola, alcune cose erano rimaste sulla carta.
Il mio sospetto era fondato, tuttavia la carta che avevo avuto a disposizione non disponeva di una traduzione su cui fare pieno affidamento, per cui ho aspettato pazientemente che fosse pubblicata un’edizione italiana “riveduta e corretta” da un unico team di traduttori, e che rispettasse un po’ di più le linee di continuità tracciate da una saga che era stata comunque pubblicata a puntate, seguendo anche  dei ritmi cinematografici.
La nuova edizione economica della Salani, curata da Stefano Bartezzaghi è di fatto venuta incontro alle mie esigenze, coniugando economicità e continuità consapevole dello stile traduttivo, e soddisfacendo la mia curiosità di lettrice.
Ho quindi intrapreso una lettura che è durata quasi un anno e che inizialmente  rispondeva alla mia necessità di scoprire cosa mancava nei film di Potter, ma che poi è diventata la scoperta di un mondo di carta di cui nella saga cinematografica si percepisce appena l’odore.
È vero: la carta non tradisce mai, e i mondi che costruisce sono densi di significato più di qualsiasi altro supporto, perché sono connessi intimamente con la vena fantastica  di ogni singolo lettore che li plasma e li colora di un’originalità tutta sua.
Di fatto la prima significativa scoperta che ho fatto è stata quella che io, Harry, Ron ed Hermione siamo più o meno coetanei: la sua storia si dipana negli anni in cui si è consumata la mia adolescenza (1991-1998), certamente questo è un nesso generazionale, e poco si adatta alla definizione di classico che è ormai necessario attribuire alla saga di Harry e dei suoi amici; tuttavia credo di aver istituito un legame privilegiato con le pagine che avevo cominciato a leggere perché sentivo la loro proporzionalità e affinità a uno specifico periodo della mia vita. Ho plasmato insomma un mio punto di vista, condivisibile con un’intera generazione e universalizzabile rispetto alle altre.
Ho appena fatto cenno alla definizione di classico assolutizzandola, e non indirizzandola specificamente ai ragazzi, i quali sono i destinatari privilegiati, ma non gli unici, delle vicende di Harry Potter.
In primo luogo la saga di Harry è un classico che si rivolge a tutti perché presenta diversi livelli di lettura. Il primo, quello superficiale, è più facilmente percepibile e  fruibile, in quanto vive della storia e nella storia costruita dall’autore, senza sovrasensi e strutture da scoprire, ed è in fondo quello sfruttato a livello cinematografico. Ci si concentra sulle avventure di Harry e dei suoi amici, seguendo un andamento tutto sommato lineare, senza eccessivi flashback o digressioni, che non siano funzionali alla vicenda principale.
Ma nei libri di Harry Potter le digressioni ci sono e aumentano in modo esponenziale a partire dal  Prigioniero di Azkaban, costruendo una rete di rapporti e interconnessioni intertestuali di spessore notevole; le vicende di Tom Riddle e quelle di Albus Silente, sono dei veri e propri racconti nel racconto,che mostrano l’una la caduta e l’altra l’ascesa, affatto priva di lati oscuri di due grandi personaggi della saga: l’antagonista per eccellenza, e il  'regista letterario' (l’artefice), entrambi desiderosi di sconfiggere la morte, sebbene con mezzi diametralmente opposti,ma in ogni caso estremi.

A ben vedere, un singolare collante tra i singoli romanzi è costituito dalle figure degli Elfi domestici, e dal loro complesso e controverso ruolo di aiutanti dei maghi: all’eroico (e pasticcione) Dobby che fa la sua apparizione in  Harry Potter e la Camera dei segreti, si affiancano la tormentata Winky, e soprattutto il sofferente Kreacher, elfo fedele, e incompreso nella sua dignità di servitore, della famiglia Black, e tutti gli elfi senza nome di Hogwarts.
Un  luogo della vicenda che assolve alla funzione di collante intertestuale è senz'altro la casa degli zii di Harry, in cui il ragazzo deve tornare ogni anno fino ai suoi 17 anni, in quanto è protetta dall'incantesimo del sangue che scorreva nella vene di sua madre Lily e scorre ancora in quelle di sua zia Petunia, figura controversa di sorella maggiore, diversa e infelice nella sua normalità che l’ha separata irrimediabilmente  dalla sorellina minore e che mostra una sua inaspettata, dolorosa, profondità.
E ancora un luogo intertestuale è la sempre affollata Tana dei Weasley, la casa in cui Harry scopre il vero significato di famiglia e apprezza il calore delle figure genitoriali di Arthur e Molly, il padre un po’ svampito ma sempre presente e la mamma - chioccia, energica e protettiva.
 Inutile soffermarsi sulla scuola di Hogwarts, millenario teatro di incontro e formazione che sulla carta coinvolge attivamente non solo la generazione di Harry, ma anche quella dei suoi genitori, di Tom Riddle e di Albus Silente.
I luoghi disegnati dalla carta sono del resto molteplici rispetto a quelli rappresentati nelle pellicole, e permettono ai lettori di costruire una sorta di ecosistema parallelo e intrecciato con quello babbano: Il binario Nove e 3/4 della stazione di Londra; Diagon Alley, luogo di intersezione fra in mondo dei maghi e degli uomini privi di poteri magici; il villaggio di Hongsmeade, ritrovo degli studenti di Hogwarts nei loro momenti di libertà; il numero 12 di Grimmauld Place, casa di Sirius Black ereditata da Harry dopo la sua tragica morte, e quartier generale dell’Ordine della Fenice; l’ospedale di San Mungo; la banca della Gringott e il Ministero della Magia con i loro misteriosi uffici e corridoi.

Harry e i suoi amici vivono in modo più completo nella carta, e nei libri molte interconnessioni che nei film sono appena percepibili diventano chiare e importanti, tanto da poter attribuire un peso totalmente differente ad alcuni episodi di carta rispetto a quelli di celluloide. In tal senso un episodio cinematograficamente poco riuscito, qual è L’Ordine della Fenice, mostra di avere una sua centralità nel mondo di carta di Harry: è infatti in questo romanzo che si delineano in modo chiaro alcuni motivi fondamentali che accompagneranno i lettori al termine della saga.  
La Pietra Filosofale e La Camera dei segreti costituiscono per Harry e per i lettori i romanzi di accesso a un altro modo parallelo, per cui hanno un tono più fiabesco nella loro relativa cupezza,  Il prigioniero di Azkaban  è il romanzo della conquista degli affetti familiari e dell’idealizzazione del passato,  Il calice di fuoco  è il punto di svolta della saga perché è di fatto il romanzo della rinascita di Lord Voldemort.
Con L’Ordine della Fenice la saga di Harry arriva a un inevitabile punto di svolta: nel suo quindicesimo anno di vita, il quarto che trascorrerà ad Hogwarts, e l’ultimo del suo primo ciclo di istruzione, al termine del quale dovrà infatti svolgere gli esami del G.U.F.O,  Harry sarà processato dal ministero della magia per essere stato costretto a fronteggiare un Dissennatore nel mondo babbano; conoscerà una delle sue più care amiche,  Luna Lovegood, e dovrà fronteggiare la minaccia di Dolores Umbridge, inviata ad Hogwards direttamente dal Ministero col ruolo di  insegnante di Difesa contro le Arti Oscure e in seguito di Inquisitore Supremo, e con lo scopo di mettere a tacere le voci del ritorno di Voltemort.
Proprio in aula si consuma un duro  confronto tra insegnate e allievi che mostra la maturazione di un interessate e attualissimo punto di vista:

-[...] è opinione del Ministero che una conoscenza teorica sarà più che sufficiente a farvi superare gli esami, e dopodutto è questo lo scopo della scuola.[...]-
-[...] e al G.U.F.O. non c’è anche una prova pratica di Difesa contro le Arti Oscure?-
-Se avete studiato abbastanza a fondo la teoria, non c’è ragione per cui non dovreste essere in grado di eseguire gli incantesimi durante gli esami, in circostanze di massima sicurezza-  rispose la professoressa Umbridge categorica.
- Senza mai averli  provati prima?-[...] -ci sta dicendo che la prima volta che potremo fare gli incantesimi sarà agli esami?-
-Ripeto che se avete studiato a fondo la teoria...-
-e a che cosa servirà la teoria nel mondo reale?- Intervenne Harry ad alta voce, la mano di nuovo levata.
La professoressa Umbridge alzò lo sguardo.
-Qui siamo a scuola, signor Potter, non nel mondo reale. - Disse piano.
- Allora non dobbiamo prepararci a ciò che ci aspetta là fuori?-
-Non c’è niente che ci aspetta là fuori, signor Potter.-[1]

È uno scambio di battute corale e multiprospettico, perché esprime dei bisogni che vanno oltre il velo fittizio delle vicenda che stiamo leggendo. Gli interrogativi che Harry e i suoi amici pongono all’insegnante, sono gli stessi che affliggono qualsiasi istituzione  educativa: il sapere  può essere scollato dall’esperienza senza diventare una sterile accozzaglia di teorie? L’interrogativo dona un’aura di concretezza a un mondo che altrimenti sarebbe solo ad esclusivo appannaggio della fantasia, e mostra il grado di maturazione dell’adolescente Harry che, all’interno di una scuola che ha scelto l’aridità nozionistica, recluterà e addestrerà insieme a Ron ed Hermione gli adepti di quello che chiamerà “l’esercito di Silente”.
L’Ordine della Fenice narra più di qualsiasi altro episodio della saga (per certi versi ancor più dei Doni della Morte) l’ingresso di Harry nell’età adulta, è di fatto il romanzo delle prese di coscienza, del primo confronto del giovane con un passato sconosciuto e idealizzato. In primo luogo il suo rapporto con Sirius Black si arricchisce di sfumature che gli mostrano le tristezze e le debolezze dell’uomo, spezzate dalla morte datagli da Bellatrix Lestrange, mentre tenta di difendere il suo figlioccio; all’umanizzazione di Sirius contribuiscono anche i ricordi di Severus Piton, violati dal giovane Harry, che scopre come il professore che considera spregevole, da studente sia stato vittima delle angherie di Black, di Remus Lupin e di suo padre James. è sempre in questo capitolo della saga che il legame tra la vita di Harry e  quella di Lord Voldemort si fa  più forte e inquietante: Harry è in grado di conoscere i pensieri del mago oscuro, e soprattutto è legato a lui (e al suo amico e compagno di scuola Neville Longbottom, nato nel suo stesso anno, alla fine di luglio, da genitori facenti parte dell’Ordine della Fenice)  da una oscura e dolorosa profezia di morte:

Ecco giungere il solo col potere di sconfiggere il Signore Oscuro...nato da chi lo ha tre volte sfidato, nato all’estinguersi del settimo mese...il Signore Oscuro lo segnerà come suo eguale, ma egli avrà un potere a lui sconosciuto...e l’uno dovrà morire per mano dell’altro, perchè nessuno dei due può vivere se l’altro sopravvive...[2]

Harry è quindi il prescelto, e Albus Silente, un uomo e mago assai diverso da quello cinematografico,  profondo, tormentato e incline ad una misurata commozione, non può fare a meno di mostrargli questo legame:

- La registrazione ufficiale è stata rietichettata dopo l’attacco di Voldemort contro di te. Il custode della Sala delle Profezie era convinto che Voldemort avesse tentato di ucciderti perché sapeva che Sybill si riferiva a te-.
-allora...potrei non essere io?-
-Temo,- disse piano Silente, e sembrava che ogni parola gli costasse un enorme sforzo, -che su questo non ci siano dubbi:  sei tu-.
-Ma ha detto...anche Neville è nato alla fine di luglio...e i suoi genitori...-
-Dimentichi la parte che segue, l’elemento finale che identifica chi è in grado di sconfiggere Voldemort...Voldemort stesso lo  segnerà come suo eguale.  E così ha fatto, Harry. ha scelto te, non Neville. Ti ha inciso sulla fronte quella cicatrice, che si è dimostrata insieme una benedizione e una maledizione-.
-Ma potrebbe avere scelto il ragazzo sbagliato!- Esclamò Harry. -Aver segnato la persona sbagliata!.-
- Ha scelto il ragazzo che a suo parere aveva più probabilità di costituire un pericolo- Disse Silente. -e nota bene, Harry: non il Purosangue (che secondo il suo credo è l’unico mago degno di esistere) ma il Mezzosangue come lui [...]-
-[...] Perché ha tentato di uccidermi quando ero un neonato? Perché non ha aspettato che Neville o io crescessimo, per poi uccidere quello che gli sembrava più pericoloso...?-
-Sì, in effetti sarebbe stato logico -  disse Silente, - ma il fatto è che le sue informazioni sulla profezia erano incomplete. La Testa di porco, che Sybill aveva scelto perchè costava poco, ha sempre attratto una clientela più...come dire?... interessante dei Tre manici di Scopa. [...]Naturalmente, quando avevo fissato l’incontro con Sybill Trelawney, non potevo immaginare che avrei sentito qualcosa di importante. Ma ho - abbiamo - avuto un colpo di fortuna: l’ascoltatore indesiderato è stato individuato e buttato fuori quando Sybill aveva appena cominciato a declamare la profezia.-
-Perciò ha sentito solo...?-
-Solo l’inizio [...]-
-Harry chiuse gli occhi. Se non fosse corso a salvare Sirius, Sirius sarebbe morto...-La fine della profezia...” chiese, senza dare molta importanza alla risposta, più che altro per allontanare il momento in cui avrebbe dovuto pensare di nuovo a Sirius. -Come diceva...? Qualcosa come...nessuno dei due può vivere...-
-...se l’altro sopravvive - concluse Silente.
-Ma questo...- disse Harry, estraendo a fatica ogni parola dal profondo pozzo di disperazione che gli si era spalancato dentro, -questo significa che...uno di noi dovrà uccidere l’altro...alla fine?-
-Sì- rispose Silente.
Rimasero a lungo in silenzio. [...]
-Sento di doverti un’altra spiegazione, Harry- disse Silente esitando. -Ti sarai forse chiesto perché non ti ho nominato prefetto...Confesso...di aver pensato...che avevi fin troppe responsabilità sulle spalle-.
Quando Harry alzò lo sguardo, vide una lacrima scivolare sul viso di silente e scomparire dentro la lunga barba d’argento.[3]

Con la profezia della professoressa Trelawney Silente  pone Harry davanti alla dura verità, alla stregua di un oracolo greco, in una sovrapposizione di piani che fanno  del ragazzo un novello Oreste, e un Edipo, eroe involontario e infelice che fonde nella sua persona antico e moderno, assassino necessario per un bene superiore e incomprensibile.



ALLA PROSSIMA SETTIMANA PER CONOSCERE LA SECONDA PARTE DELLE NOSTRE RIFLESSIONI...

[1]J. K. Rowling, Harry Potter e l'Ordine della Fenice, Milano, Salani, 2012, p. 254.
[2] Ibidem, pp. 822-823.
[3]Ibidem, pp.823-826.