sabato 16 aprile 2022

Letture con l'anima: Via col vento come esperienza metacognitiva.


 

Ci sono voluti circa quattro mesi, una lettura infinita, lenta, meditata e perlopiù  notturna, ma ho realizzato il mio sogno trentennale: leggere GONE WHIT THE WIND (per dirlo all'italiana VIA COL VENTO) il romanzo di Margaret Mitchell da cui è  stato tratto uno di quei filmoni chilometrici che, a partire  dai miei otto anni di età, avrò visto e rivisto almeno cinquanta volte.

Questa NON sarà una recensione (recensire un Pulitzer del 1936  sarebbe giusto un po' ridondante) sarà piuttosto una sorta di ricordo-racconto che, osservando la storia di carta di Rossella O'Hara e Rhett Buttler,  riflette e narra il valore di una simile scelta di lettura.

Penso  di aver visto  Via Col Vento di Victor Fleming, per intero, per la prima volta, intorno agli otto - nove anni d'età, e non mi sono addormentata neanche un secondo.

Mi innamorai di Vivien Leigh, dei suoi occhi verdi e dell'abito bianco e verde indossato alle Dodici Querce. Mi concentrai sui titoli che raccontavano la guerra di secessione americana e indagai per i fatti miei cosa fosse successo negli Stati Uniti nel 1861. Simpatizzai per Rhett Buttler e per la dolce Melania Hamilton malsopportando invece quel bacchettone biondo di Ashley Wilkes.

 Quando di lì  a poco i miei genitori comprarono un videoregistratore, mi attrezzai per registrare questo bel filmone e cominciai a guardarlo e riguardarlo, anche a puntate. Sapevo perfettamente dove interrompere la visione per non stancarmi troppo.

Il culmine della mia passione lo raggiunsi quando, in terza media, proposi alla mia professoressa di storia di portare a scuola un film raccontasse guerra di Secessione. Portai le mie adorate videocassette di Via col vento e godetti di una visione del film in aula magna, su un maxischermo di discreta grandezza. Non so dire quanto fosse entusiasta la mia profesoressa, ma io ero letteralmente elettrizzata.

Ricordo ancora la visione della fiction Rossella (1994) che avrebbe dovuto concludere con un lieto fine, la vicenda narrate nel film. Non mi piacque, ne ho la registrazione ma non l'ho più  rivista.

Ho acquistato nel 2013 il bluray di Via col vento restaurato e ho usato la versione in lingua originale per ripassare inglese in vista dell'orale del concorso a cattedra, ma non avevo mai provato ad acquistare il libro di Margaret Mitchell; io, che ho sempre creduto che nei libri ci fosse di più rispetto alle loro riduzioni cinematografiche e che me lo sono continuamente dimostrato con la lettura di Harry Potter,  della Storia infinita, e di tanti altri testi più o meno corposi, diventati film.

 Non era il blocco del lettore ad impedirmi di affrontare Via col vento, era la pigrizia della fruitrice delle storie carta obnubilata dal fascino di una  faticosa pellicola che nella sua testa ( e non solo) era già lei un'opera letteraria fatta di celluloide.

 


Via col vento è  un libro di oltre mille pagine. A dirla tutta è  strutturata in sessantadue capitoli divisi in cinque parti. Insomma, è uno di quei libri che  comunemente si definiscono "mattoni", è stato scritto  da una giornalista, negli anni trenta del novecento, e ha l'aggravante di non definirsi più  di tanto un classico, in quanto, pur meritando questa definizione, è diventato suo malgrado lo screenplay ufficioso dell'omonimo famosissimo film che ha ispirato.

Chi legge oggi Via col vento  dopo aver avuto il coraggio di sciropparsi tutto il film, ha solitamente ben chiara la sua trama, la riconosce e l'ascolta tra le pagine che riecheggiano, talvolta con impressionante fedeltà, le immagini di celluloide, e se è già  abbastanza faticoso per uno spettatore  contemporaneo guardare un film che dura duecentotrentotto minuti, avventurarsi nella lettura di un mattone di tal fatta appare, non a torto, un'impresa titanica.

Mi sono  cimentata con entusiasmo nella lettura  di una vicenda che credevo di conoscere alla perfezione e che si dipana in dodici lunghi anni  di grandi cambiamenti storici e sociali per gli Stati Uniti.

 Le  macroscopiche differenze rispetto alla pellicola del 1939 sono abbastanza tipiche: una maggior articolazione delle varie scene che alternano e fondono descrizione e narrazione in un continuo gioco di punti di vista; un   maggiore numero di personaggi secondari di un certo spessore;uno studio più  attento e articolato delle fogure principali, indagate con grande perizia narrativa; le tre maternità di Rossella e le figure (poco definite ma sempre avocate nella scrittura) dei suoi tre figli,frutto degli altrettanti matrimoni da lei contratti.

Tuttavia sono davvero notevoli le somiglianze tra film e libro: intere scene e dialoghi non hanno subito adattamenti dalla carta alla scena. Via col vento di carta, è senza mezzi termini la sceneggiatura di Via col vento di celluloide in un'impressionante sovrapposizione di piani evocativi tra pagine e scene.

Nel mondo di carta emerge con nettezza la figura della protagonista.

Rossella è una femminista ante litteram,  sostiene gli schiaffi di una vita violentata dalla grande storia,  ricostruisce con tenacia il suo mondo fatto a pezzi dalla guerra  non facendosi  scrupoli davanti a nessuno, ma  nello stesso tempo mostra un totale analfabetismo a livello sentimentale che si ripercuote dolorosamente nella sua sfera privata di donna, madre e amante, il suo " Ci penserò  domani" è un vero è proprio mantra che l' accompagna in tutta la vicenda e l'aiuta a riorganizzare di volta in volta la sua vita; Rhett Buttler è l'uomo a lei predestinato come sembra indicarle anche una profezia di Mammy, all'inizio della vicenda La loro affinità  è  indubbia ma Rossella la trascura per correre dietro al  fantasma di un'infatuazione incarnato da Ashley, l'inetto, l'uomo fragile e irresoluto a livello sentimentale, l'uomo fedele al passato che non riesce a reinventarsi nel presente,  e che tuttavia è sostenuto e protetto  dalla grande anima della dolce fragile e forte Melania, incarnazione dell'amore inteso come agape universale.



 Via col vento è un romanzo storico e sentimentale dalla trama quasi ipertrofica, un lungo viaggio nella storia e nelle storie, in cui la fine di un'epoca si fonde a quella dell'innocenza dei protagonisti: Rossella ha sedici anni quando entra in scena e ne esce all'età di ventotto. La bambina che si è  apparentemente conservata nella sua infatuazione per Ashley ha fatto spazio alla donna ferita e completa, abbandonata dall'unico uomo e dalla sola amica che abbiano compreso e amato le complesse profondità della sua anima.

Leggere un'opera così imponente significa entrare senza mezzi termini in un mondo che non c'è più, edulcorato in tante sfumature della narrazione ma sempre onnicomprensivo nella sua struttura.

Chi me lo ha fatto fare? Una domanda che è stata ricorrente in questi quattro mesi, e che trova una risposta nella coscienza che la lettura di un mattone del genere è un'enorme risorsa per l'immaginario di chi l'affronta, perché in un contesto come quello di Via col vento ci si deve lasciare andare all'immaginario, e poco importa se questo  è  già segnato dalle scene e ha i volti e le voci dei personaggi del film, perché le pagine lo arricchiranno, lo tramortiranno con altre inaspettate scoperte narrative, chiuderanno insomma un cerchio.

Leggere un grande romanzo significa sempre e comunque entrare in un altro mondo, ed è  dolce potervi rimanere per tanto tempo, osservarne i cambiamenti, vivere tra i suoi personaggi.

Quella di Via col vento è una lettura che ha  un profondo valore metacognitivo, perché permette di riflettere sul valore intrinseco delle narrazioni romanzesche, intese non tanto e non solo come brevi episodi da bere in una giornata ma come vicende sontuose, piene, costruite, fatte di personaggi, paesaggi e  di storia che innerva le loro storie; e fa riflettere anche sul nostro rapporto con la lettura in sé e con noi stessi che, come afferma Colum McCann, viviamo in una " sorta di giostra in accelerazione"[1]ma abbiamo bisogno di fermare questo tempo forsennato attraverso le storie che ci ricollocano al suo interno.

VIA COL VENTO sarà anche un mattone di carta, ma l'esperienza di lettura che ne deriva  dimostra il grande valore che ha ancora oggi e forse oggi più di ieri, per l'immaginario talvolta troppo frettoloso dei lettori.



[1] Cfr. C. McCann, L’universo dentro una sequoia, in “Sotto il Vulcano” n.1, Novembre 2021.


 

martedì 11 gennaio 2022

Tra storia e introspezione, il romanzo di Publio Clodio

 



Quando, qualche mese fa, sono stata contattata dalla pagina di Instagram IlprofessorX che mi offriva la possibilità di leggere una storia tutta romana conservata nei miei ricordi di studentessa universitaria e reiterata negli anni attraverso la lettura di alcune fonti latine, non mi sono ovviamente tirata indietro.

Il periodo storico ed il personaggio indagati da G.Middei  nel suo romanzo d'esordio Clodio (Navarra editore 2021)  sono a dir poco complicati, considerando che bisogna sempre fare i conti con le interpretazioni storiografiche latine orientate alla celebrazione dei difensori della Respublica degli optimates e in generale alla difesa di tutto ciò che non fosse perturbante per lo Stato Romano ( storiografia della classe dominante).

Detto ciò quella lanciata da Middei è una vera e propria  sfida narrativa che intreccia con buona perizia due tipologie di romanzo: quello tipicamente storico e quello psicologico e introspettivo dai risvolti filosofici.

Ambienti e attori sono ritratti con grande precisione iconografica: il teatro delle azioni e quello delle anime dei personaggi si intrecciano in una climax ascendente e indagatoria che, narrando e indagando il punto di vista di Clodio, appartenente alla nobile famiglia dei Claudii ma tacciato di incapacità dal padre in punto di morte[1], si pone in posizione alternativa rispetto a quello dominante della Respublica romanorun.

Clodio non è un romanzo semplice, non tanto per la sua distanza temporale dalla nostra contingenza, presto diminuita dalle  attualissime determinazioni del protagonista che cerca con ogni mezzo si sconfessare la propria supposta inettitudine sociale, quanto piuttosto per la sua  ricchezza indagatoria che può  essere superficialmente  scambiata per prolissità ma ne è l'autentica cifra.

I naturali squilibri che possono verificarsi  tra vero e verosimile, tra mondo e anime dei personaggi diventano preziose immagini narrative che ridisegnano il complesso periodo della Roma dei triumviri e di Cicerone, riconsegnandola anche ai suoi attori non protagonisti e facendola rivivere davanti agli occhi del lettore.

Clodio è indagato ed agito il tutte le sfaccettature della sua anima: emerge un personaggio chiaroscurale dalle idee innovative che rimane incompreso dalla storia dei dominatori, ma che non  merita di contro la nostra esecratio

Insieme a lui la figura quasi speculare della moglie Fulvia[2], nella quale si si rifrangono le sue fragilità e violente debolezze di uomo, e che riflette, completa e giudica nella complessità fragile della sua anima di domina quella tormentata del suo compagno.

Quella di Clodio è  senza dubbio una  complessità narrativa e riflessiva che, ad un'attenta lettura,  va oltre  la sua epoca e si tinge di un' universalità senza tempo.

 

 



[1] Antenato ante litteram degli inetti decadenti.

[2] Passata alla storia come la moglie di Marco Antonio, sposato addirittura in terze nozze, ma che fu sposata con Clodio per oltre dieci anni, fino al suo assassinio.

lunedì 13 dicembre 2021

MERAVIGLIOSI GIRI DI PAROLE: LE AVVENTURE CARTACEE DI FIRMINO, UN TOPO DI BIBLIOTECA

La mia storia con Firmino è iniziata nel lontano ottobre del 2008. Acquistai una copia  del romanzo si Sam Savage (Einaudi, Stile libero big, 2008)  in una libreria di Torino, incuriosita dal delicato e ironico disegno in bianco e nero della copertina e da qualche sinossi sbocconcellata qua e là.

Ricordo la profonda sensazione di piacere nel liberare lo smilzo volumetto dal cellophane, e ne ho ricordato a lungo le prime venti pagine oltre le quali, in quello specifico periodo della mia vita, non riuscii ad andare...

Il primo marzo del 2009 sono ritornata a Palermo per iniziare la mia vita di dottoranda in italianistica, ma Firmino non è venuto insieme a me: l'ho affidato  alla persona che è  stata, per me, la più  cara di quel periodo.  Non sono però più riuscita a procurarmene un'altra copia, pur desiderando continuarne la lettura...

Il mese scorso, curiosando tra gli scaffali dei libri usati della libreria europa, mi è finito tra le mani un altro Firmino, un libro che qualcuno non aveva voluto più e aveva appunto affidato alla libreria. Ovviamente non ci ho pensato due volte e l'ho immediatamente acquistato.

Riprendere la lettura di Firmino, dopo tredici anni, è stato emozionante, perché ho avuto quasi l'impressione che questo libro non si fosse dimenticato di me, e mi avesse voluto dare una possibilità di lettura più matura e consapevole.

Firmino è  letteralmente un topo di biblioteca che  scrive la propria autobiografia raccontando la sua singolare vita di lettore, fantasioso creatore di mondi, timido e cogitabondo epigono di un universo che si sgretola davanti ai suoi occhi di roditore. La  storia di questo animaletto fuori dal comune ( scherzo della natura) fortemente caratterizzata da toni dark, entra nel cuore del lettore per la sua assurda credibilità e la sua profonda leggerezza. Firmino è  un ratto ma è anche un lettore finissimo costretto all'introversione dal suo aspetto animalesco, ed è l'antitopo per eccellenza, prigioniero di una tragica, straniante, umanità tanto diversa da quella che vediamo ostentata nei suoi colleghi roditori umanizzati. Aver letto Firmino nella sua interezza ben tredici anni dopo la sua pubblicazione mi ha certamente permesso di percepire la natura universale e senza tempo del suo messaggio che per certi versi ha ben poco di edificante nella sua indiscutibile forza poetica.

Firmino è un topo che diventa topos letterario della letterarietà e della figura dell'intellettuale letterato che vive una condizione di profondo scollamento dalla realtà, letta attraverso la mediazione dei libri, cibo reale e metaforico del nostro ratto.

In ultima analisi anche Firmino è un libro che ha fatto un giro meraviglioso e ha silenziosamente rinsaldato un'amicizia che dura da tredici anni. Nello scatto che ho proposto l'edizione di sinistra è quella comprata a Torino, fotografata dalla mia cara amica nella sua dimora di Massa Lubrense, quella di destra è invece la copia che ho adottato qualche settimana fa. 

Due libri cartacei, un unico testo, una meravigliosa vicenda di carta e di narrazione.

 

mercoledì 22 settembre 2021

Racconto è memoria che ritorna e non muore: l'estrema storia del Pane perduto di Edith Bruck


1.Intima

Mi sono approcciata alla lettura de Il pane perduto  di Edith Bruck (Milano, La nave di Teseo 2021) con la curiosità di chi non ne aveva sentito parlar bene[1]. Non mi spiegavo in che senso un’opera portatrice di una simile testimonianza, e che aveva fatto incetta di riconoscimenti, potesse essere stata scritta con poca attenzione; qualcosa non mi tornava.

Edith ha da poco compiuto 90 anni, è nata nella primavera del 1931, e una storia raccontata a questo punto della sua vita non può avere la morbidezza delle narrazioni romanzesche, ancor di più se questa storia, fatta di memoria senza orpelli e senza diaframmi, la riporta ad Aushwitz e le fa ripercorrere gli abissi della crudeltà umana vissuti sulla sua pelle di bambina-adolescente e la successiva dolorosa ricostruzione di una vita, umiliata, offesa e annientata che si è salvata per puro caso da un nero baratro di odio e ha trovato una strada per sopravviversi e viversi.

Questa estrema testimonianza è stata scritta “sulla soglia della fine dietro la porta”[2] e bisogna tenerne conto per comprenderne il significato più profondo.  Il pane perduto è l’estremo viaggio di una memoria che non è stata annientata da un orrore distruttore di tante vite anche a distanza di anni rispetto a quando si è consumato; allora bisogna coglierla con attenzione e gratitudine, senza facili generalizzazioni tematiche.

2. Narrazione e senso della narrazione

Una bambina corre scalza sulla polvere tiepida. La voce narrante la chiama Dickte. Osserva alcuni scampoli della sua infanzia ignara di ciò che la attende. Il primo capitolo del  Pane perduto  è raccontato quasi tutto in terza persona, col preciso scopo di far percepire al lettore la distanza della protagonista da questa sé ignara del poi, tuttalpiù vittima secondaria degli eventi che la fanno sentire diversa nella sua innocenza.

 La tredicesima primavera di Dickte segna il passaggio di narrazione alla prima persona, in un consapevole cambio di prospettiva: il momento della deportazione è quello in cui l’io riprende il suo spazio narrativo di protagonista che narra se stesso, separandosi dalla sua vita di bambina senza passato. Di bambina felice.

Quello che viene dopo, almeno nel capitolo che prende il titolo dal numero che è diventata Edith nei campi di sterminio nazista, è storia per certi versi conosciuta, testimoniata da tanti sopravvissuti con maggiori dettagli e dettagliata crudezza. In una manciata di pagine riprendono vita, colori, odori, dolori e inconsapevolezze della protagonista e della sorella che lottano per sopravvivere al vortice che le travolge e le massacra giorno dopo giorno.

Il profondo valore  di questa testimonianza sta proprio nel suo spostamento di prospettiva che proietta la protagonista nel dopo che si apre con la liberazione dai campi di sterminio.

Davanti agli occhi del lettore c’è un’anima che si era quasi annientata nell'orrore, e che è  gravida di parole e racconti. Ricostruirsi è difficile perché  Edith non ha più  punti di riferimento: non ha  una famiglia e non appartiene più  al paese in cui è  nata.

La sua dolorosa rinascita è vissuta attraverso i dialoghi asciutti e le descrizioni lapidarie di luoghi e personaggi; questi si modellano in un complesso nostos reale e di parole che non ha una meta prestabilita, e passando per la Terra promessa, la porterà nel suo paese d'adozione: l'Italia.

" Ecco", mi dicevo, "questo è  il mio Paese". La parola patria non l'ho mai pronunciata: in nome della patria gli uomini commettono ogni nefandezza. Io abolirei la parola patria, come tante altre parole: “mio”, “zitto”, “obbedisci”, “la legge è  uguale per tutti”, “nazionalismo”, “razzismo”, “guerra”, e quasi anche la parola “amore”, privata della sua sostanza.

Ci vorrebbero parole nuove anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia. La lingua di chi canta con la voce e le corde che piangono la ignoravo del tutto. La prima parola che ho imparato è  stata “ciao”. Me l'aveva detta una ragazzina che stava pulendo la mia stanza; “ciao” le avevo risposto e lei aveva sorriso della mia pronuncia della “o”.[3]

Il senso della narrazione,inteso come sensazione liberatoria riposta nelle parole di una lingua che viene scelta dall'autrice per sancire quasi la sua seconda nascita, si trova tutto in queste battute. Edith non potrà dimenticare, sente il dovere di raccontare e lo fa in un codice linguistico che diventerà faticosamente e amorevolmente suo.

3. Raccontare, fino alla fine.

Le parole sono le figlie di Edith, sono la sua cura per sopravvivere a ciò che ha subito.

Sono parole asciutte che mimano la realtà, la resuscitano nella sua crudezza che diventa spigolosità stilistica. Il pane perduto non è un'opera scolastica, è una storia che entra nel cuore del lettore attraverso il suo stile perturbante, in cui la narrazione è riflessione e viceversa.

Una narrazione asciutta e faticosa che reitera il ricordo e lo consegna ai lettori, esaudendo ancora una volta la necessità dell'autrice di fissare sulla carta il suo dolore e la sua rinascita.

Una scrittura universale e diversamente empatica che non si limita a raccontare, cerca piuttosto di "illuminare le coscienze" ponendosi fuori dalle aule scolastiche, e lo fa senza mezzi termini.

In questo è riposto l'autentico  e non convenzionale valore didattico del Pane perduto.

 



[1] Nonostante Il pane perduto sia stato incluso nella cinquina del premio strega, e sia stato indignito del premio Viareggio, non sono stati pochi i booksblogger che non lo hanno apprezzato per l’argomento troppo “abusato” e per uno stile di scrittura poco ortodosso.

[2]E. Bruck, Il pane perduto, Milano, La nave di Teseo 2021 p. 125

[3] Ivi p. 106-107

 

mercoledì 11 agosto 2021

Prospettive metanarrative e parole resuscitanti: La forza nascosta e svelata delle Due vite di Emanuele Trevi.

 


Una delle principali caratteristiche delle opere narrative della letteratura italiana post sveviano-pirandelliana è  una  tendenza latamente metanarrativa.

Le narrazioni non si concentrano solo sulla trama ma riflettono in modo più o meno palese e stratificato su sé stesse e sui loro scopi.

Questo atteggiamento può spiazzare (addirittura infastidire)  il lettore visivo, concentrato sul plot e sui suoi sviluppi, e consacra le parole a rimanere principalmente  costruzioni di carta, pressoché intraducibili, se non  a scapito del loro significato più  profondo, in immagini o scene che possano avere piena vita fuori dalla pagina e fuori dalla testa dei lettori.

Ben inteso, la metanarrativa non è  un difetto né tantomeno un cervellotico eccesso delle opere  della letteratura contemporanea: è  una loro possibile  peculiarità, che non le impoverisce, ma ne rivela la vocazione prevalentemente e intensamente grafica e meditativa.

Due vite,  di Emanuele Trevi (Neri Pozza Bloom), vincitore del premio Strega 2021, appartiene a questa tipologia di opere squisitamente letterarie e metanarrative.

La breve narrazione romanzesca di Emanuele Trevi prende il via dall'evocazione delle figure di due suoi cari amici prematuramente scomparsi: Rocco Carbone e Pia Pera, entrambi scrittori.

Due vite è un romanzo di amicizia che sull'amicizia si fonda e per amicizia è  scritto. In esso, attraverso le parole dell'amico superstite rivive il  rapporto di dei tre autori.

Un rapporto tra tre giovani universitari che diventano adulti, le cui vite si incrociano e si allontanano. Ma che rimangono sempre profondamente legati.

Quella di Trevi è  una scrittura piana, costruita sui ricordi, con uno scopo rievocativo che si insinua tra le pagine per disvelarsi pienamente e dichiaratamente

ai lettori.

La scrittura è di fatto un esercizio resuscitante che ha un ruolo fondamentale nel perpetrare una delle due vite che ci sono assegnate.

La prima è quella biologica interrotta dalla morte terrena, la seconda prende corpo nei ricordi, ed è  qui che entra in gioco la coscienza metanarrativa dell'autore. I ricordi sono anch'essi mortali, fatti di sangue e carne, destinati a sbiadirsi e dissolversi con i testimoni che ne sono detentori, ma se questi sono fissati sulla carta perdono la loro inconsistente deperibilitá e divengono cose vive e sempre presenti davanti a chi le rievoca e a chi le legge: una foscoliana  garanzia di immortalità che trasforma la corrispondenza d'amorosi sensi in storie condivise con i lettori .

È la scrittura che immortala davvero le persone, perché  ne fissa la transitorietà e i cambiamenti  e ne consegna il ricordo ai posteri.

Due vite è  un romanzo breve, come è  breve qualsiasi vita terrena rispetto all'eterno fluire del tempo, ma consegna ed  eterna sulla carta liberatrice e racconta al lettore, che lettore deve essere e non spettatore, delle verità intangibili e perturbanti fatte di vita, di infelicità di amicizia che non muore con chi se ne va ma rimane per sempre.

È una lettura difficile nella sua apparente  scorrevolezza, perché non racconta, piuttosto resuscita.

Ed  è proprio questa la sua splendida, incontestabile, consapevole forza.

 

 Letizia Magro


martedì 3 agosto 2021

Lu cuntu di li Florio: La chiusura di un cerchio.

Riflessioni sulla Saga dei Leoni di Sicilia e sul loro inverno


1.Storie  che continuano. Cerchi che si chiudono
 

Il 24 maggio di quest'anno è stato pubblicato l'attesissimo seguito de I leoni di Sicilia di Stefania Auci: L'inverno dei leoni.

Il romanzo riprende la storia della famiglia Florio dal 1869 fino ad arrivare al 1950 e ne affronta la difficile parabola discendente che si dipana in un segmento temporale storicamente denso di avvenimenti.

Come la stessa autrice precisa nella sua postfazione,L'inverno dei leoni è un romanzo,[1] ed è importante precisarlo proprio per comprendere il valore di questa costruzione narrativa dalla scrittura limpida e scorrevole.

In questo segmento narrativo l'autrice è infatti riuscita a mediare magistralmente tra storia e narrativa, attraverso l'attivazione di due piani di scrittura visibili al lettore, ovvero le introduzioni meramente storiche alle singole sezioni del romanzo, e l' equilibrato intarsio di storia e storie che vedono come sfondo la città di Palermo e l'Italia tutta con qualche stralcio d'Europa.

In verità la tecnica narrativa non è cambiata rispetto al primo libro della saga. Ma avere a disposizione una più vasta documentazione storica costituisce un' importante e niente affatto semplice variabile per chi scrive e deve rimanere in equilibrio tra verità e verosimiglianza, infondendo vita narrativa e immaginando le emozioni di personaggi che sono stati  veri attori di una storia i cui segni sono ancora visibili ai nostri occhi.

La scelta di essere narratrice onnisciente permette alla Auci di entrare di volta in volta nelle anime dei suoi personaggi e di mostrarne i dubbi, le passioni e le incertezze, le forze e le debolezze. Li vediamo materialmente agire nel bene e nel male e li osserviamo anche mentre la contemporaneità dei loro tempi agisce, generosa o impietosa, su di loro.

 

2. Una parabola discendente

 

L'inverno dei leoni è  un romanzo discendente[2], che si apre in una  florida estate, nella quale tuttavia si percepiscono degli squilibri tra vita lavorativa e familiare dei personaggi, passando per un colorato autunno che ha i fasti del Decadentismo e della Belle epoque, precipitando nell'inverno dei fallimenti della famiglia che ha tanto dato a Palermo e alla Sicilia ma che non ha trovato nei suoi epigoni delle figure imprenditoriali carismatiche capaci di cavalcare i tempi da esse vissute[3] .

Iconiche e apparentemente opposte sono le due protagoniste femminili Giovanna e Franca, accomunate entrambe dal grande e sofferto amore per i propri mariti, padre e figlio, Ignazio, portatori del medesimo nome, ma diversi e quasi opposti nel  modo di affrontare i tempi in cui vivono e nel gestire la propria vita[4].

Il taglio del romanzo storico è più netto rispetto al primo volume della saga, ma questa vicenda che, nella sua dimensione pubblica,  possiamo vedere  e verificare tutti attraverso gli innumerevoli documenti storici a nostra disposizione, è teatro di un racconto a tratti corale, fortemente visivo[5] che scorre attraverso le parole che non sono mai né troppe né troppo poche e risultano di agevole lettura anche per chi non ama molto approcciarsi ai libri, e questo è  un grande merito che va riconosciuto all'autrice senza ombra di dubbio[6].

 

3. E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane.
 

Ho intitolato, non a caso, questo breve percorso di riflessione critica Lu cuntu di li Florio e ho voluto di proposito usare gli ultimi versi dei Sepolcri foscoliani per arrivare alla parte conclusiva della mia disamina.

Sono tanti i morti che aleggiano in questo romanzo.Antenati e patriarchi, innocenti, anime ferite e anime grandi. Non è un caso se uno degli ultimi scenari narrativi sia un sepolcro, in cui l'ultimo Florio dialoga con i suoi antenati e piange i suoi cari in una difficile e dolorosa corrispondenza d'amorosi sensi.

Lui ormai  per il mondo degli affari  è nuddu immiscatu cu nnenti...non gli è rimasto nulla delle immense ricchezze  costruite  e accumulate col il lavoro  da suo nonno e dal padre, anche la sua casa è  stata distrutta … ma il mito del suo cognome e delle imprese compiute dai suoi portatori non può  essere cancellato, diventa storia da raccontare, "cuntu" da ascoltare, romanzo da fissare  sulle bocche e sulle pagine che lo tramanderanno.

Questo è il merito indiscutibile dell'intera saga dei Florio, non tanto raccontarne una storia vera in quanto documentata[7], quanto piuttosto riscrivere una verosimile mitologia familiare che sia alla portata della sensibilità narrativa dei lettori-fruitori.

Perché le opere fisiche che modificano il paesaggio sono destinate a finire distrutte dalla furia dei tempi che passano. Ma l'armonia dei racconti vince sempre "di mille secoli il silenzio" passando di memoria in memoria;  e attraverso questa complessa e ricca costruzione scenico-narrativa la vicenda dei Florio  è  messa in condizione  di diventare "cuntu" di tutti.

 

LettureCreative-Letizia Magro


[1] Come  del resto anche I leoni di Sicilia

[2] É quasi possibile disegnare una vera e propria parabola durante la lettura

[3] E non solo per una strana sorte avversa, quasi una maledizione antica che trova le sue radici nelle parole pronunciate da Mattia, sorella dei primi Paolo e Ignazio Florio nel primo romanzo ( cfr.  I leoni i Sicilia, Milano, Editrice Nord, 2019, p. 95) , ma anche per una grande immaturità dei tempi in cui è  impensabile ad esempio immaginare che una donna possa avere capacità imprenditoriali.

[4] Il fatto di possedere delle immagini fotografiche e dei ritratti di questi protagonisti ci permette di animare, avvalendoci dell'immaginazione, corpi con delle precise fattezze, che nella scrittura sono appena tratteggiate  in quelli che sono i loro elementi essenziali, occhi, capelli, a favore di una più profonda indagine caratteriale

[5] Continuo a pensare, e non è una critica negativa, che sia pronto  per essere trasformato nella sceneggiatura di una fiction.

[6] Penso che, con una buona preparazione dei docenti, possa essere addirittura un buon libro di narrativa già  dalla terza media, e lo è  sicuramente nelle scuole siciliane.

[7] Del resto non finiremo mai di dire che questo è solo un romanzo,un cuntu ( racconto) , alla siciliana, appunto.


 

martedì 20 luglio 2021

Un romanziere di fatto; breve indagine letteraria dell’opera narrativa di Gabriele Missaglia


1. Cominciamo dall'autore...

Se appartenete alla categoria dei booksgrammer o booklovers su Instagram o comunque fruite dei social network flaggando tra i vostri interessi quello della lettura, vi sarà  capitato di imbattervi nel profilo di Gabriele Missaglia, classe 1991, laureato in legge, autore di un romanzo Il diario, un destino già scritto (2017), e un racconto lungo Pietro e la piantagione (2019) editi entrambi da Amazon in formato cartaceo e digitale, e di un terzo romanzo ancora inedito, che promette tuttavia di confermare la sua vocazione per la scrittura.

Missaglia, noto anche con lo pseudonimo UN ROMANZIERE DI FATTO, è autore appassionato di lettura,  e si impegna molto nella promozione di sé  stesso e di quelle che sono le sue più grandi passioni, avvalendosi dei  principali canali social: Youtube[1], Facebook[2], Instagram[3] e Tik tok[4].

È soprattutto Instagram che gli permette di promuoversi a 360 gradi e che mostra ai suoi follower l'autore-lettore Gabriele che si fa personaggio, arguto e autoironico, e si mostra in reel colorati che ce lo raccontano attraverso godibili sketch.

Missaglia appartiene ad una specifica categoria: quella degli esordienti che si autoproducono e si pubblicizzano mettendoci letteralmente la faccia e giocano con se stessi con una grandissima serietà intellettuale.

Quello che lo distingue dagli altri autori è senza alcun dubbio l'autocoscienza  giocosa  (dalla quale emerge la giusta dose di narcisismo) che traspare nelle sue performance.

Detto ciò andiamo ad osservare come si traduce questa personalità nella scrittura romanzesca e quali sono le principali caratteristiche narrative che emergono nella scrittura di Un Romanziere di Fatto.

 

 

2. Vita È teatro, palcoscenici incrociati nel DIARIO

Iniziando a leggere Il diario, un destino già scritto, un lettore esperto percepisce un leggero senso di inadeguatezza, come se qualcosa non quadrasse: sarà  l'ambientazione inaspettata in una Londra più  simbolica che reale, sarà l'alternarsi di dialoghi e pensieri; ma Londra è  un palcoscenico tanto vasto quanto indefinitamente definito, e il gioco di alternanze mostra e nasconde ciò che questo romanzo vuole effettivamente essere: un autentico dramma a tre personaggi. In esso la trama si dipana a guisa di fotogrammi; il lettore la osserva in un continuo gioco di rimandi e sospesi che alimentano il plot narrativo che a sua volta si fa percorso metateatrale: un dramma infatti si racconta nel suo concepimento, lo osserviamo mentre è agito dai sui stessi personaggi: Lui, Lei, L'Altro.

E proprio L' Altro, Finn, l'uomo dai capelli rossi, possiede un fuoco demiurgico che  diventa furia distruttiva, dalle ceneri della quale nascerà  un capolavoro.
Archetipico è  il personaggio di Andrew,  il Lui  della narrazione, in quanto in esso è impossibile non ravvisare la figura dell'Inetto, l'uomo incapace di vivere[5], rieditata secondo i canoni del ventunesimo secolo.

Schiacciato dalla figura del padre assente, sembra un uomo di successo, ha una moglie bellissima con la quale tuttavia non è in grado di rapportarsi, e nel momento in cui è  attirato in una trappola demiurgica che sembra essergli stata tesa proprio dal genitore morto, emergono tutta la sua disorganizzazione mentale e la sua incapacità  di distinguere tra reale e fantastico.

Da questo punto di vista il personaggio della moglie Phoebe è anch'esso abbastanza caratteristico, sebbene poco caratterizzato: ne percepiamo la fisicità, che si focalizza sul suo sorriso luminoso. Essa si interseca  con una leggerezza quasi frivola, e a una mobilità anch'essa a tratti daimonica che mostra man mano tutta la sua innocente capacità distruttiva.

Defilate ma in realtà importantissime per la chiusura del cerchio narrativo, sono le due collaboratrici di Andrew, che, non solo porteranno avanti il suo lavoro, ma saranno anche letteralmente e metaforicamente spettatrici della sua tragedia.

Il diario è  quindi un interessante prodotto letterario che mette in moto diverse varianti in un impegnativo gioco ultranarrativo,  questo emerge già dalla prima lettura e si mostra nelle varie sovrapposizioni e iterazioni dei piani del racconto, costruite  con una buona perizia dal narratore onniscente.

Una vicenda che è  godibile già  attraverso una lettura ingenua ma che al lettore attento mostra i giochi metanarrativi dei quali è  nutrita che e ne rendono più  intensa e definita la comprensione.


2. Della Natura e di altri demoni: la storia di Pietro


Criticabile alquanto in Pietro e la piantagione è la presenza di una postfazione superflua: questo intenso racconto lungo[6] non ha bisogno di spiegazioni o di giustificazioni; parla da solo,  costruendo una potente allegoria narrativa.


Di fatto la postfazione, che ha tutt'al più il sapore di una captatio benivolentiae in cui l'autore cerca di spiegare in modo delicato e compito ai suoi lettori l'intento della sua creazione,  non aggiunge  alla vicenda nulla che già  non sia stato detto dai e nei suoi personaggi.

Pietro e la piantagione è una semplicissima storia che si costruisce sull'amore romantico e carnale, senza distinzione di genere.

È intessuta di riferimenti pseudoevangelici che si scoprono allegorici e metatemporali, a cominciare dall’iniziale ambientazione nella città terrena di Betsaida, capitale di un impero e luogo/non luogo dalla connotazione geografica multipla[7].

Da questa città,  afflitta da una peste che ne decima la popolazione[8]  il vecchio citarista Pietro parte  per accettare l'incarico di custode dei cancelli del Paradiso, affidatogli dal Grande G., il nazareno Gesù, figlio di un Dio accennato e assente nella sua onnipresenza.

Ma in questa allegoria postmoderna G. non è  misericordioso, è  piuttosto  la cinica reinterpretazione della Natura leopardiana che osserva il male degli uomini ed è ad essi indifferente, e persegue unicamente i suoi insensati e annoiati disegni.

L'illusione di misericordia che la stessa Natura da agli uomini sarà del resto personificata dalla figura del Diavolo, che nel racconto è il fratello sfortunato e gentile di Gesù, relegato da lui nel sottosuolo come Ade da Zeus.

Pietro deve di fatto compiere delle prove nell'aldilà per riuscire ad ottenere una cura che guarisca il suo amato Michele e tutto il mondo. Ma il suo viaggio  richiama quello archetipico per la letteratura italiana che è  stato compiuto da Dante nei tre regni dell'Oltretomba.

Pietro si muove infatti all'immobilità  lattiginosa  del Paradiso, passando per il Purgatorio fino a scendere all'Inferno in un'ideale Catabasi redentoria senza guide, ovvero guidato unicamente dai desideri del suo cuore.

Pietro e la piantagione è  quindi un racconto evocativo ed  equilibrato con un finale forse un po' frettoloso che ne chiarisce il titolo e  lo conclude  dandogli un gusto amaro e leggendario.

 

4. Una conclusione che non conclude

Le due opere edite di Gabriele Missaglia, pur partorite dalla stessa mano, sono  abbastanza diverse dal punto di vista argomentativo: metateatrale la prima, allegorica la seconda.

Le accomuna uno stile in via di definizione ma che mostra già una netta predilezione per un periodare piano, in cui il fraseggio non è  mai ipertrofico.

Un tipo di costruzione discorsiva e narrativa che si presta ad una lettura visuale e cinematografica, e pone davanti agli occhi dei lettori i capitoli come fossero scene.

Quella di Missaglia è forse una scrittura di nicchia, che senza  dubbio maturarerà ulteriormente dal punto di vista stilistico, ma è  già nutrita di una gande consapevolezza, è quindi degna di diventare un piccolo trend social letterario.



[5] "La vera fatica è vivere" sarà una sua battuta di sapore pavesiano

[6] Definizione che, non solo a parer mio, identifica in modo più corretto le narrazioni inferiori alle cento pagine.

[7] Betsaida, luogo di nascita di Simon Pietro, si trova vicino a Gerusalemme, che è  inoltre il luogo vicino al quale secondo la letteratura religiosa medioevale  si trovano le porte dell'Inferno, ma è  il nome di molti altri luoghi sparsi per il mondo.

[8] Un male che c'è, non trova giustificazioni ultraterrene o punitive da parte di un’entità superiore