lunedì 13 dicembre 2021

MERAVIGLIOSI GIRI DI PAROLE: LE AVVENTURE CARTACEE DI FIRMINO, UN TOPO DI BIBLIOTECA

La mia storia con Firmino è iniziata nel lontano ottobre del 2008. Acquistai una copia  del romanzo si Sam Savage (Einaudi, Stile libero big, 2008)  in una libreria di Torino, incuriosita dal delicato e ironico disegno in bianco e nero della copertina e da qualche sinossi sbocconcellata qua e là.

Ricordo la profonda sensazione di piacere nel liberare lo smilzo volumetto dal cellophane, e ne ho ricordato a lungo le prime venti pagine oltre le quali, in quello specifico periodo della mia vita, non riuscii ad andare...

Il primo marzo del 2009 sono ritornata a Palermo per iniziare la mia vita di dottoranda in italianistica, ma Firmino non è venuto insieme a me: l'ho affidato  alla persona che è  stata, per me, la più  cara di quel periodo.  Non sono però più riuscita a procurarmene un'altra copia, pur desiderando continuarne la lettura...

Il mese scorso, curiosando tra gli scaffali dei libri usati della libreria europa, mi è finito tra le mani un altro Firmino, un libro che qualcuno non aveva voluto più e aveva appunto affidato alla libreria. Ovviamente non ci ho pensato due volte e l'ho immediatamente acquistato.

Riprendere la lettura di Firmino, dopo tredici anni, è stato emozionante, perché ho avuto quasi l'impressione che questo libro non si fosse dimenticato di me, e mi avesse voluto dare una possibilità di lettura più matura e consapevole.

Firmino è  letteralmente un topo di biblioteca che  scrive la propria autobiografia raccontando la sua singolare vita di lettore, fantasioso creatore di mondi, timido e cogitabondo epigono di un universo che si sgretola davanti ai suoi occhi di roditore. La  storia di questo animaletto fuori dal comune ( scherzo della natura) fortemente caratterizzata da toni dark, entra nel cuore del lettore per la sua assurda credibilità e la sua profonda leggerezza. Firmino è  un ratto ma è anche un lettore finissimo costretto all'introversione dal suo aspetto animalesco, ed è l'antitopo per eccellenza, prigioniero di una tragica, straniante, umanità tanto diversa da quella che vediamo ostentata nei suoi colleghi roditori umanizzati. Aver letto Firmino nella sua interezza ben tredici anni dopo la sua pubblicazione mi ha certamente permesso di percepire la natura universale e senza tempo del suo messaggio che per certi versi ha ben poco di edificante nella sua indiscutibile forza poetica.

Firmino è un topo che diventa topos letterario della letterarietà e della figura dell'intellettuale letterato che vive una condizione di profondo scollamento dalla realtà, letta attraverso la mediazione dei libri, cibo reale e metaforico del nostro ratto.

In ultima analisi anche Firmino è un libro che ha fatto un giro meraviglioso e ha silenziosamente rinsaldato un'amicizia che dura da tredici anni. Nello scatto che ho proposto l'edizione di sinistra è quella comprata a Torino, fotografata dalla mia cara amica nella sua dimora di Massa Lubrense, quella di destra è invece la copia che ho adottato qualche settimana fa. 

Due libri cartacei, un unico testo, una meravigliosa vicenda di carta e di narrazione.

 

mercoledì 22 settembre 2021

Racconto è memoria che ritorna e non muore: l'estrema storia del Pane perduto di Edith Bruck


1.Intima

Mi sono approcciata alla lettura de Il pane perduto  di Edith Bruck (Milano, La nave di Teseo 2021) con la curiosità di chi non ne aveva sentito parlar bene[1]. Non mi spiegavo in che senso un’opera portatrice di una simile testimonianza, e che aveva fatto incetta di riconoscimenti, potesse essere stata scritta con poca attenzione; qualcosa non mi tornava.

Edith ha da poco compiuto 90 anni, è nata nella primavera del 1931, e una storia raccontata a questo punto della sua vita non può avere la morbidezza delle narrazioni romanzesche, ancor di più se questa storia, fatta di memoria senza orpelli e senza diaframmi, la riporta ad Aushwitz e le fa ripercorrere gli abissi della crudeltà umana vissuti sulla sua pelle di bambina-adolescente e la successiva dolorosa ricostruzione di una vita, umiliata, offesa e annientata che si è salvata per puro caso da un nero baratro di odio e ha trovato una strada per sopravviversi e viversi.

Questa estrema testimonianza è stata scritta “sulla soglia della fine dietro la porta”[2] e bisogna tenerne conto per comprenderne il significato più profondo.  Il pane perduto è l’estremo viaggio di una memoria che non è stata annientata da un orrore distruttore di tante vite anche a distanza di anni rispetto a quando si è consumato; allora bisogna coglierla con attenzione e gratitudine, senza facili generalizzazioni tematiche.

2. Narrazione e senso della narrazione

Una bambina corre scalza sulla polvere tiepida. La voce narrante la chiama Dickte. Osserva alcuni scampoli della sua infanzia ignara di ciò che la attende. Il primo capitolo del  Pane perduto  è raccontato quasi tutto in terza persona, col preciso scopo di far percepire al lettore la distanza della protagonista da questa sé ignara del poi, tuttalpiù vittima secondaria degli eventi che la fanno sentire diversa nella sua innocenza.

 La tredicesima primavera di Dickte segna il passaggio di narrazione alla prima persona, in un consapevole cambio di prospettiva: il momento della deportazione è quello in cui l’io riprende il suo spazio narrativo di protagonista che narra se stesso, separandosi dalla sua vita di bambina senza passato. Di bambina felice.

Quello che viene dopo, almeno nel capitolo che prende il titolo dal numero che è diventata Edith nei campi di sterminio nazista, è storia per certi versi conosciuta, testimoniata da tanti sopravvissuti con maggiori dettagli e dettagliata crudezza. In una manciata di pagine riprendono vita, colori, odori, dolori e inconsapevolezze della protagonista e della sorella che lottano per sopravvivere al vortice che le travolge e le massacra giorno dopo giorno.

Il profondo valore  di questa testimonianza sta proprio nel suo spostamento di prospettiva che proietta la protagonista nel dopo che si apre con la liberazione dai campi di sterminio.

Davanti agli occhi del lettore c’è un’anima che si era quasi annientata nell'orrore, e che è  gravida di parole e racconti. Ricostruirsi è difficile perché  Edith non ha più  punti di riferimento: non ha  una famiglia e non appartiene più  al paese in cui è  nata.

La sua dolorosa rinascita è vissuta attraverso i dialoghi asciutti e le descrizioni lapidarie di luoghi e personaggi; questi si modellano in un complesso nostos reale e di parole che non ha una meta prestabilita, e passando per la Terra promessa, la porterà nel suo paese d'adozione: l'Italia.

" Ecco", mi dicevo, "questo è  il mio Paese". La parola patria non l'ho mai pronunciata: in nome della patria gli uomini commettono ogni nefandezza. Io abolirei la parola patria, come tante altre parole: “mio”, “zitto”, “obbedisci”, “la legge è  uguale per tutti”, “nazionalismo”, “razzismo”, “guerra”, e quasi anche la parola “amore”, privata della sua sostanza.

Ci vorrebbero parole nuove anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia. La lingua di chi canta con la voce e le corde che piangono la ignoravo del tutto. La prima parola che ho imparato è  stata “ciao”. Me l'aveva detta una ragazzina che stava pulendo la mia stanza; “ciao” le avevo risposto e lei aveva sorriso della mia pronuncia della “o”.[3]

Il senso della narrazione,inteso come sensazione liberatoria riposta nelle parole di una lingua che viene scelta dall'autrice per sancire quasi la sua seconda nascita, si trova tutto in queste battute. Edith non potrà dimenticare, sente il dovere di raccontare e lo fa in un codice linguistico che diventerà faticosamente e amorevolmente suo.

3. Raccontare, fino alla fine.

Le parole sono le figlie di Edith, sono la sua cura per sopravvivere a ciò che ha subito.

Sono parole asciutte che mimano la realtà, la resuscitano nella sua crudezza che diventa spigolosità stilistica. Il pane perduto non è un'opera scolastica, è una storia che entra nel cuore del lettore attraverso il suo stile perturbante, in cui la narrazione è riflessione e viceversa.

Una narrazione asciutta e faticosa che reitera il ricordo e lo consegna ai lettori, esaudendo ancora una volta la necessità dell'autrice di fissare sulla carta il suo dolore e la sua rinascita.

Una scrittura universale e diversamente empatica che non si limita a raccontare, cerca piuttosto di "illuminare le coscienze" ponendosi fuori dalle aule scolastiche, e lo fa senza mezzi termini.

In questo è riposto l'autentico  e non convenzionale valore didattico del Pane perduto.

 



[1] Nonostante Il pane perduto sia stato incluso nella cinquina del premio strega, e sia stato indignito del premio Viareggio, non sono stati pochi i booksblogger che non lo hanno apprezzato per l’argomento troppo “abusato” e per uno stile di scrittura poco ortodosso.

[2]E. Bruck, Il pane perduto, Milano, La nave di Teseo 2021 p. 125

[3] Ivi p. 106-107

 

mercoledì 11 agosto 2021

Prospettive metanarrative e parole resuscitanti: La forza nascosta e svelata delle Due vite di Emanuele Trevi.

 


Una delle principali caratteristiche delle opere narrative della letteratura italiana post sveviano-pirandelliana è  una  tendenza latamente metanarrativa.

Le narrazioni non si concentrano solo sulla trama ma riflettono in modo più o meno palese e stratificato su sé stesse e sui loro scopi.

Questo atteggiamento può spiazzare (addirittura infastidire)  il lettore visivo, concentrato sul plot e sui suoi sviluppi, e consacra le parole a rimanere principalmente  costruzioni di carta, pressoché intraducibili, se non  a scapito del loro significato più  profondo, in immagini o scene che possano avere piena vita fuori dalla pagina e fuori dalla testa dei lettori.

Ben inteso, la metanarrativa non è  un difetto né tantomeno un cervellotico eccesso delle opere  della letteratura contemporanea: è  una loro possibile  peculiarità, che non le impoverisce, ma ne rivela la vocazione prevalentemente e intensamente grafica e meditativa.

Due vite,  di Emanuele Trevi (Neri Pozza Bloom), vincitore del premio Strega 2021, appartiene a questa tipologia di opere squisitamente letterarie e metanarrative.

La breve narrazione romanzesca di Emanuele Trevi prende il via dall'evocazione delle figure di due suoi cari amici prematuramente scomparsi: Rocco Carbone e Pia Pera, entrambi scrittori.

Due vite è un romanzo di amicizia che sull'amicizia si fonda e per amicizia è  scritto. In esso, attraverso le parole dell'amico superstite rivive il  rapporto di dei tre autori.

Un rapporto tra tre giovani universitari che diventano adulti, le cui vite si incrociano e si allontanano. Ma che rimangono sempre profondamente legati.

Quella di Trevi è  una scrittura piana, costruita sui ricordi, con uno scopo rievocativo che si insinua tra le pagine per disvelarsi pienamente e dichiaratamente

ai lettori.

La scrittura è di fatto un esercizio resuscitante che ha un ruolo fondamentale nel perpetrare una delle due vite che ci sono assegnate.

La prima è quella biologica interrotta dalla morte terrena, la seconda prende corpo nei ricordi, ed è  qui che entra in gioco la coscienza metanarrativa dell'autore. I ricordi sono anch'essi mortali, fatti di sangue e carne, destinati a sbiadirsi e dissolversi con i testimoni che ne sono detentori, ma se questi sono fissati sulla carta perdono la loro inconsistente deperibilitá e divengono cose vive e sempre presenti davanti a chi le rievoca e a chi le legge: una foscoliana  garanzia di immortalità che trasforma la corrispondenza d'amorosi sensi in storie condivise con i lettori .

È la scrittura che immortala davvero le persone, perché  ne fissa la transitorietà e i cambiamenti  e ne consegna il ricordo ai posteri.

Due vite è  un romanzo breve, come è  breve qualsiasi vita terrena rispetto all'eterno fluire del tempo, ma consegna ed  eterna sulla carta liberatrice e racconta al lettore, che lettore deve essere e non spettatore, delle verità intangibili e perturbanti fatte di vita, di infelicità di amicizia che non muore con chi se ne va ma rimane per sempre.

È una lettura difficile nella sua apparente  scorrevolezza, perché non racconta, piuttosto resuscita.

Ed  è proprio questa la sua splendida, incontestabile, consapevole forza.

 

 Letizia Magro


martedì 3 agosto 2021

Lu cuntu di li Florio: La chiusura di un cerchio.

Riflessioni sulla Saga dei Leoni di Sicilia e sul loro inverno


1.Storie  che continuano. Cerchi che si chiudono
 

Il 24 maggio di quest'anno è stato pubblicato l'attesissimo seguito de I leoni di Sicilia di Stefania Auci: L'inverno dei leoni.

Il romanzo riprende la storia della famiglia Florio dal 1869 fino ad arrivare al 1950 e ne affronta la difficile parabola discendente che si dipana in un segmento temporale storicamente denso di avvenimenti.

Come la stessa autrice precisa nella sua postfazione,L'inverno dei leoni è un romanzo,[1] ed è importante precisarlo proprio per comprendere il valore di questa costruzione narrativa dalla scrittura limpida e scorrevole.

In questo segmento narrativo l'autrice è infatti riuscita a mediare magistralmente tra storia e narrativa, attraverso l'attivazione di due piani di scrittura visibili al lettore, ovvero le introduzioni meramente storiche alle singole sezioni del romanzo, e l' equilibrato intarsio di storia e storie che vedono come sfondo la città di Palermo e l'Italia tutta con qualche stralcio d'Europa.

In verità la tecnica narrativa non è cambiata rispetto al primo libro della saga. Ma avere a disposizione una più vasta documentazione storica costituisce un' importante e niente affatto semplice variabile per chi scrive e deve rimanere in equilibrio tra verità e verosimiglianza, infondendo vita narrativa e immaginando le emozioni di personaggi che sono stati  veri attori di una storia i cui segni sono ancora visibili ai nostri occhi.

La scelta di essere narratrice onnisciente permette alla Auci di entrare di volta in volta nelle anime dei suoi personaggi e di mostrarne i dubbi, le passioni e le incertezze, le forze e le debolezze. Li vediamo materialmente agire nel bene e nel male e li osserviamo anche mentre la contemporaneità dei loro tempi agisce, generosa o impietosa, su di loro.

 

2. Una parabola discendente

 

L'inverno dei leoni è  un romanzo discendente[2], che si apre in una  florida estate, nella quale tuttavia si percepiscono degli squilibri tra vita lavorativa e familiare dei personaggi, passando per un colorato autunno che ha i fasti del Decadentismo e della Belle epoque, precipitando nell'inverno dei fallimenti della famiglia che ha tanto dato a Palermo e alla Sicilia ma che non ha trovato nei suoi epigoni delle figure imprenditoriali carismatiche capaci di cavalcare i tempi da esse vissute[3] .

Iconiche e apparentemente opposte sono le due protagoniste femminili Giovanna e Franca, accomunate entrambe dal grande e sofferto amore per i propri mariti, padre e figlio, Ignazio, portatori del medesimo nome, ma diversi e quasi opposti nel  modo di affrontare i tempi in cui vivono e nel gestire la propria vita[4].

Il taglio del romanzo storico è più netto rispetto al primo volume della saga, ma questa vicenda che, nella sua dimensione pubblica,  possiamo vedere  e verificare tutti attraverso gli innumerevoli documenti storici a nostra disposizione, è teatro di un racconto a tratti corale, fortemente visivo[5] che scorre attraverso le parole che non sono mai né troppe né troppo poche e risultano di agevole lettura anche per chi non ama molto approcciarsi ai libri, e questo è  un grande merito che va riconosciuto all'autrice senza ombra di dubbio[6].

 

3. E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane.
 

Ho intitolato, non a caso, questo breve percorso di riflessione critica Lu cuntu di li Florio e ho voluto di proposito usare gli ultimi versi dei Sepolcri foscoliani per arrivare alla parte conclusiva della mia disamina.

Sono tanti i morti che aleggiano in questo romanzo.Antenati e patriarchi, innocenti, anime ferite e anime grandi. Non è un caso se uno degli ultimi scenari narrativi sia un sepolcro, in cui l'ultimo Florio dialoga con i suoi antenati e piange i suoi cari in una difficile e dolorosa corrispondenza d'amorosi sensi.

Lui ormai  per il mondo degli affari  è nuddu immiscatu cu nnenti...non gli è rimasto nulla delle immense ricchezze  costruite  e accumulate col il lavoro  da suo nonno e dal padre, anche la sua casa è  stata distrutta … ma il mito del suo cognome e delle imprese compiute dai suoi portatori non può  essere cancellato, diventa storia da raccontare, "cuntu" da ascoltare, romanzo da fissare  sulle bocche e sulle pagine che lo tramanderanno.

Questo è il merito indiscutibile dell'intera saga dei Florio, non tanto raccontarne una storia vera in quanto documentata[7], quanto piuttosto riscrivere una verosimile mitologia familiare che sia alla portata della sensibilità narrativa dei lettori-fruitori.

Perché le opere fisiche che modificano il paesaggio sono destinate a finire distrutte dalla furia dei tempi che passano. Ma l'armonia dei racconti vince sempre "di mille secoli il silenzio" passando di memoria in memoria;  e attraverso questa complessa e ricca costruzione scenico-narrativa la vicenda dei Florio  è  messa in condizione  di diventare "cuntu" di tutti.

 

LettureCreative-Letizia Magro


[1] Come  del resto anche I leoni di Sicilia

[2] É quasi possibile disegnare una vera e propria parabola durante la lettura

[3] E non solo per una strana sorte avversa, quasi una maledizione antica che trova le sue radici nelle parole pronunciate da Mattia, sorella dei primi Paolo e Ignazio Florio nel primo romanzo ( cfr.  I leoni i Sicilia, Milano, Editrice Nord, 2019, p. 95) , ma anche per una grande immaturità dei tempi in cui è  impensabile ad esempio immaginare che una donna possa avere capacità imprenditoriali.

[4] Il fatto di possedere delle immagini fotografiche e dei ritratti di questi protagonisti ci permette di animare, avvalendoci dell'immaginazione, corpi con delle precise fattezze, che nella scrittura sono appena tratteggiate  in quelli che sono i loro elementi essenziali, occhi, capelli, a favore di una più profonda indagine caratteriale

[5] Continuo a pensare, e non è una critica negativa, che sia pronto  per essere trasformato nella sceneggiatura di una fiction.

[6] Penso che, con una buona preparazione dei docenti, possa essere addirittura un buon libro di narrativa già  dalla terza media, e lo è  sicuramente nelle scuole siciliane.

[7] Del resto non finiremo mai di dire che questo è solo un romanzo,un cuntu ( racconto) , alla siciliana, appunto.


 

martedì 20 luglio 2021

Un romanziere di fatto; breve indagine letteraria dell’opera narrativa di Gabriele Missaglia


1. Cominciamo dall'autore...

Se appartenete alla categoria dei booksgrammer o booklovers su Instagram o comunque fruite dei social network flaggando tra i vostri interessi quello della lettura, vi sarà  capitato di imbattervi nel profilo di Gabriele Missaglia, classe 1991, laureato in legge, autore di un romanzo Il diario, un destino già scritto (2017), e un racconto lungo Pietro e la piantagione (2019) editi entrambi da Amazon in formato cartaceo e digitale, e di un terzo romanzo ancora inedito, che promette tuttavia di confermare la sua vocazione per la scrittura.

Missaglia, noto anche con lo pseudonimo UN ROMANZIERE DI FATTO, è autore appassionato di lettura,  e si impegna molto nella promozione di sé  stesso e di quelle che sono le sue più grandi passioni, avvalendosi dei  principali canali social: Youtube[1], Facebook[2], Instagram[3] e Tik tok[4].

È soprattutto Instagram che gli permette di promuoversi a 360 gradi e che mostra ai suoi follower l'autore-lettore Gabriele che si fa personaggio, arguto e autoironico, e si mostra in reel colorati che ce lo raccontano attraverso godibili sketch.

Missaglia appartiene ad una specifica categoria: quella degli esordienti che si autoproducono e si pubblicizzano mettendoci letteralmente la faccia e giocano con se stessi con una grandissima serietà intellettuale.

Quello che lo distingue dagli altri autori è senza alcun dubbio l'autocoscienza  giocosa  (dalla quale emerge la giusta dose di narcisismo) che traspare nelle sue performance.

Detto ciò andiamo ad osservare come si traduce questa personalità nella scrittura romanzesca e quali sono le principali caratteristiche narrative che emergono nella scrittura di Un Romanziere di Fatto.

 

 

2. Vita È teatro, palcoscenici incrociati nel DIARIO

Iniziando a leggere Il diario, un destino già scritto, un lettore esperto percepisce un leggero senso di inadeguatezza, come se qualcosa non quadrasse: sarà  l'ambientazione inaspettata in una Londra più  simbolica che reale, sarà l'alternarsi di dialoghi e pensieri; ma Londra è  un palcoscenico tanto vasto quanto indefinitamente definito, e il gioco di alternanze mostra e nasconde ciò che questo romanzo vuole effettivamente essere: un autentico dramma a tre personaggi. In esso la trama si dipana a guisa di fotogrammi; il lettore la osserva in un continuo gioco di rimandi e sospesi che alimentano il plot narrativo che a sua volta si fa percorso metateatrale: un dramma infatti si racconta nel suo concepimento, lo osserviamo mentre è agito dai sui stessi personaggi: Lui, Lei, L'Altro.

E proprio L' Altro, Finn, l'uomo dai capelli rossi, possiede un fuoco demiurgico che  diventa furia distruttiva, dalle ceneri della quale nascerà  un capolavoro.
Archetipico è  il personaggio di Andrew,  il Lui  della narrazione, in quanto in esso è impossibile non ravvisare la figura dell'Inetto, l'uomo incapace di vivere[5], rieditata secondo i canoni del ventunesimo secolo.

Schiacciato dalla figura del padre assente, sembra un uomo di successo, ha una moglie bellissima con la quale tuttavia non è in grado di rapportarsi, e nel momento in cui è  attirato in una trappola demiurgica che sembra essergli stata tesa proprio dal genitore morto, emergono tutta la sua disorganizzazione mentale e la sua incapacità  di distinguere tra reale e fantastico.

Da questo punto di vista il personaggio della moglie Phoebe è anch'esso abbastanza caratteristico, sebbene poco caratterizzato: ne percepiamo la fisicità, che si focalizza sul suo sorriso luminoso. Essa si interseca  con una leggerezza quasi frivola, e a una mobilità anch'essa a tratti daimonica che mostra man mano tutta la sua innocente capacità distruttiva.

Defilate ma in realtà importantissime per la chiusura del cerchio narrativo, sono le due collaboratrici di Andrew, che, non solo porteranno avanti il suo lavoro, ma saranno anche letteralmente e metaforicamente spettatrici della sua tragedia.

Il diario è  quindi un interessante prodotto letterario che mette in moto diverse varianti in un impegnativo gioco ultranarrativo,  questo emerge già dalla prima lettura e si mostra nelle varie sovrapposizioni e iterazioni dei piani del racconto, costruite  con una buona perizia dal narratore onniscente.

Una vicenda che è  godibile già  attraverso una lettura ingenua ma che al lettore attento mostra i giochi metanarrativi dei quali è  nutrita che e ne rendono più  intensa e definita la comprensione.


2. Della Natura e di altri demoni: la storia di Pietro


Criticabile alquanto in Pietro e la piantagione è la presenza di una postfazione superflua: questo intenso racconto lungo[6] non ha bisogno di spiegazioni o di giustificazioni; parla da solo,  costruendo una potente allegoria narrativa.


Di fatto la postfazione, che ha tutt'al più il sapore di una captatio benivolentiae in cui l'autore cerca di spiegare in modo delicato e compito ai suoi lettori l'intento della sua creazione,  non aggiunge  alla vicenda nulla che già  non sia stato detto dai e nei suoi personaggi.

Pietro e la piantagione è una semplicissima storia che si costruisce sull'amore romantico e carnale, senza distinzione di genere.

È intessuta di riferimenti pseudoevangelici che si scoprono allegorici e metatemporali, a cominciare dall’iniziale ambientazione nella città terrena di Betsaida, capitale di un impero e luogo/non luogo dalla connotazione geografica multipla[7].

Da questa città,  afflitta da una peste che ne decima la popolazione[8]  il vecchio citarista Pietro parte  per accettare l'incarico di custode dei cancelli del Paradiso, affidatogli dal Grande G., il nazareno Gesù, figlio di un Dio accennato e assente nella sua onnipresenza.

Ma in questa allegoria postmoderna G. non è  misericordioso, è  piuttosto  la cinica reinterpretazione della Natura leopardiana che osserva il male degli uomini ed è ad essi indifferente, e persegue unicamente i suoi insensati e annoiati disegni.

L'illusione di misericordia che la stessa Natura da agli uomini sarà del resto personificata dalla figura del Diavolo, che nel racconto è il fratello sfortunato e gentile di Gesù, relegato da lui nel sottosuolo come Ade da Zeus.

Pietro deve di fatto compiere delle prove nell'aldilà per riuscire ad ottenere una cura che guarisca il suo amato Michele e tutto il mondo. Ma il suo viaggio  richiama quello archetipico per la letteratura italiana che è  stato compiuto da Dante nei tre regni dell'Oltretomba.

Pietro si muove infatti all'immobilità  lattiginosa  del Paradiso, passando per il Purgatorio fino a scendere all'Inferno in un'ideale Catabasi redentoria senza guide, ovvero guidato unicamente dai desideri del suo cuore.

Pietro e la piantagione è  quindi un racconto evocativo ed  equilibrato con un finale forse un po' frettoloso che ne chiarisce il titolo e  lo conclude  dandogli un gusto amaro e leggendario.

 

4. Una conclusione che non conclude

Le due opere edite di Gabriele Missaglia, pur partorite dalla stessa mano, sono  abbastanza diverse dal punto di vista argomentativo: metateatrale la prima, allegorica la seconda.

Le accomuna uno stile in via di definizione ma che mostra già una netta predilezione per un periodare piano, in cui il fraseggio non è  mai ipertrofico.

Un tipo di costruzione discorsiva e narrativa che si presta ad una lettura visuale e cinematografica, e pone davanti agli occhi dei lettori i capitoli come fossero scene.

Quella di Missaglia è forse una scrittura di nicchia, che senza  dubbio maturarerà ulteriormente dal punto di vista stilistico, ma è  già nutrita di una gande consapevolezza, è quindi degna di diventare un piccolo trend social letterario.



[5] "La vera fatica è vivere" sarà una sua battuta di sapore pavesiano

[6] Definizione che, non solo a parer mio, identifica in modo più corretto le narrazioni inferiori alle cento pagine.

[7] Betsaida, luogo di nascita di Simon Pietro, si trova vicino a Gerusalemme, che è  inoltre il luogo vicino al quale secondo la letteratura religiosa medioevale  si trovano le porte dell'Inferno, ma è  il nome di molti altri luoghi sparsi per il mondo.

[8] Un male che c'è, non trova giustificazioni ultraterrene o punitive da parte di un’entità superiore

giovedì 8 luglio 2021

Singolari biografie di un'anima: la Danteide di Piero Trellini

Danteide di Piero Trellini, pubblicata da Bompiani all'inizio del 2021, è un viaggio  che inizia da un mucchio di ossa.

Questo si focalizza inizialmente su un teschio e su ciò che esso ha contenuto, dipanandosi in un percorso di suggestioni, avvenimenti, micro e macrostorie raccolte, subite e vissute dal detentore di quelle misere ossa, di quel teschio e della sua eccezionale materia grigia che ha cessato di essere percorsa dalla scintilla della vita esattamente 700 anni fa, ma che tanto ha fatto e scritto, concependo e costruendo il classico per antonomasia della letteratura italiana: La Commedia.

La Danteide di fatto ci parla di Dante Alighieri in modo centrifugo, indagando i mondi con i quali è  venuto in contatto e ne hanno influenzato le concezioni, le forme e i contenuti poetici. Racconta storie che in Dante sono appena accennate, o che sono in qualche modo date per conosciute contestualizzando i canti danteschi,  accendendoli di suggestioni che possono, a onor del vero, aver avuto un ruolo fondamentale nella concezione del milieu  creativo dantesco.

Un'idea precisa anima di questa costruzione- ricostruzione, che non vuole essere storica pur essendolo, e che presenta una complessità  interpretativa che la pone a un livello metaletterario, questa  è  chiaramente espressa dal suo autore quasi in chiusura del volume:

 

Lo spazio della storia è  un tempo raccolto. Ma più ci allontaniamo e più quegli uomini perdono dignità. Vivono dentro una pagina, poi in una riga, infine rimangono un nome. Così  alla fine veniamo a sapere solo di titoli, colori e fa ioni, perdendo, nei limiti della brevità, le origini, i motivi, le vite, le storie, la complessità  nascosta dietro ciascuna dicotomia. Dante di quel presente assorbì la versione integrale. Ma anche lui fu portato a semplificarlo. La complessità  del suo disegno lo costrinse a ridurre, magari a un verso, le vite degli altri, lasciandocene solo l'essenza.[1]

 

Il viaggio centrifugo, partendo da quell'essenza, prova a ricostruire storie perdute, nascoste  e conservate nelle cronache medioevali e sconosciute ai più, le riannoda, le sintetizza in mappe mentali e parole chiave, mostrando ai lettori la vera storia di Ugolino, narrando le vicende di una figura cruciale come quella di Guido da Montefeltro, facendo emergere dall'oblio della macrostoria figure secondarie come quella di Tebaldello, o di un povero prete, raccontando dei ratti arrivati dalle Indie e dei danni che arrecavano, e dei continui scambi con il mondo arabo che trovano nella Commedia dantesca ben più  di un flebile accenno, costituendone  l'ossatura fantastica.

La Danteide non pretende dunque di essere una  biografia  in quanto racconta le amorose corrispondenze col mondo di un'anima, di una eccezionale materia grigia  che non ha lasciato traccia nelle cavità del teschio dantesco,  ma che, figlia del suo tempo, lo ha plasmato secondo le sue esigenze artistiche, linguistiche, umane.

 

Elaborò la concezione grandiosa di un poema attraverso il quale lanciare un monito all'umanità. Per questo motivo adottò  come lingua il volgare, non il latino, così  da arrivare a tutti. Preferì come genere la poesia, perché  essa solo, e non la prosa, poteva unire cielo e terra. Grazie a essa disseminò il suo poema di simmetrie, corrispondenze, codici, allusioni e profezie. Lo organizzò in tre parti, composte da canti formati da versi, strutturati in terzine. Racchiuse al loro interno significati letterali, allegorici, morali, scientifici, storici, filosofici, religiosi e anagogici. Scelse la struttura delle narrazioni dell'aldilà. Fu forse Brunetto [ Latini] a suggerirgli una gabbia di sapore islamico. Comunque andò, quando la scoprì, capì  subito che era perfetta. Dentro vi racchiuse quanto era impresso nel suo cervello, i saperi appresi, le storie conosciute, i pettegolezzi origliati, Le vite degli altri. L'oltretomba gli permise di costruire una prospettiva grandiosa, di giudicare la cronaca del suo tempo di mescolare passato e presente, scritture e mitologia, finzione e realtà, ma anche di esprimere il suo rancore, attuare la sua vendetta, concretizzare la sua rivalsa, impartire la sua morale.[2]

 

Questo è ciò che prova a ricostruire la Danteide.

Piero Trellini si è  avvalso di quasi cinquemila documenti[3] per costruire un affresco cartaceeo ricco di suggestioni in cui ciò che nelle parole di Dante era visto come la decadenza di un'epoca si rivela per quello che è: un momento di trasformazione in cui il Medioevo finisce e lascia spazio all'uomo che rinasce. La memoria di Dante ce l'ha consegnata attraverso la sua memoria che l'ha fatta diventare storia, intesa come costruzione poetico-narrativa.

La Danteide non è  un testo scientifico come lo si intenderebbe nel mondo accademico, tuttavia consegna agli appassionati e agli studiosi di Dante una ineffabile percezione: quella della creazione che nasce dalla vita vissuta.



[1] Piero Trellini, Danteide, Bompiani, Milano, 2021  p. 526

[2] Ivi,  pp. 484, 485

[3]  Per la maggior parte in formato elettronico, è questo un altro parto creativo del lockdown del 2020

 

mercoledì 19 maggio 2021

Nuovi classici senza tempo: la dolceamara vicenda dell' Ickabog nel regno di Cornucopia


Voglio chiarire subito un fatto che sembrerà  banale, ma che potrebbe essere un deterrente per non leggere questo libro: L'Ickabog  (Salani editrice), pubblicato nel novembre del 2020, non è Harry Potter,  sono due storie che hanno in comune solo l'autrice, J. K. Rowling, e nient'altro. Differente è  l'impianto narrativo, differenti le strutture narratologiche, differenti gli intenti.

L'Ickabog è una fiabesca metafora, un' ineccepibile costruzione narrativa di un' altrettanto ineccepibile autrice che attinge all'universo delle fiabe tradizionali sviluppando una morfologia nella quale sono riconoscibili le principali funzioni di Propp.

La mia disamina comincia proprio dalla forma di questo romanzo, figlio del 2020 e della volontà di recuperare e narrare una storia rimasta in un cassetto facendola diventare interattiva e coinvolgendo i giovani ascoltatori a distanza nella realizzazione delle sue illustrazioni.

L'onniscienza e la ricercata e ironica  complicità tra narratore e lettore sono espedienti mutuati dalla narrativa romanzesca classica ( non si può  non pensare al nostro Manzoni e ai sei lettori dei Promessi Sposi) e costruiscono un perfetto sistema di immedesimazione nelle vicende.

La geografia dei luoghi e i tempi che si stagliano nel fiabesco indeterminato, consacrano il racconto a questa specifica tipologia narrativa.

Infine l'equilibrio  dei personaggi è  frutto di un'equazione creativa in cui non ci sono sbilanciamenti e ognuno svolge il suo ruolo in modo proporzionato rispetto a quello degli altri.

I richiami e i motivi fiabeschi si intrecciano in un'armonia romanzesca leggera e profonda: i motivi del monstrum, dei dei fratelli separati che devono superare tante prove si intrecciano con  quelli del re inetto e del consigliere disonesto, delle eroine al femminile, degli oppressi che lottano per la libertà, del regno che si vede impoverire per una minaccia incombente; i finali lieti e incrociati portano a compimento tante piccole e grandi storie legate tra loro in maniera reale e simbolica.

Fil rouge del discorso narrativo è  la paura del diverso e la scoperta della gentilezza come valore portante per convivere e costruire nelle differenze.

Non mancano argomenti forti declinati nel linguaggio fiabesco: il delicato motivo della genitorialità intesa anche come questione di genere, e quello politico che mette in scena l'eterna e inevitabile lotta tra autoritarismo statale e necessità di una visione democratica di governo in cui il popolo possa dire la sua e non si trovi asservito e oppresso al potere di pochi o ancor peggio di uno che fa solo il proprio interesse.

L'Ickabog non è proprio Harry Potter, ma è una storia straordinaria per la sua capacità di legarsi a qualsiasi tempo e a qualsiasi luogo. È una lettura per bambini e ragazzi, uno spunto di riflessione per gli adulti.

L'Ickabog è  di fatto un delicato e potente parto metaforico e metatemporale di quello strano anno che è  stato il 2020, e nella sua trama strutturale e narrativa questo piccolo grande libro è indubbiamente già un classico.


martedì 27 aprile 2021

Giochiamo con Dante? Si può fare...con L'INFERNO SPIEGATO MALE

 


Chiedo umilmente scusa.
Lo faccio a nome di tutti quei professori di lettere ( tendenzialmente delle scuole superiori) che non sono riusciti a far amare ai propri allievi Dante Alighieri e la sua Commedia. A dire il vero ( e lo spirito del buon Boccaccio che le affibbiò l'aggettivo DIVINA parla attraverso di me) lo considererei qualcosa di imperdonabile, illogico, inspiegabile...perché è  davvero un'impresa ardua non riuscire a trasmettere neanche un briciolo un brivido un sentore della sterminata bellezza profusa delle terzine dantesche, bisogna essere davvero...poco empatici... (anche la lettura compiuta da Vittorio Gassman nella mia prima infanzia, nella sua pesantezza teatrale, aveva qualcosa di ipnotico). Se tuttavia questo "peccato" riesce ad essere espiato da chi ne è  stato vittima ( perché il peccatore  non se ne renderà  mai conto)  con una pena del contrappasso creativa che si traduce in una proposta di lettura originale qual è  per l'appunto  L'INFERNO SPIEGATO MALE di Francesco Muzzopappa...allora...parliamone!

Ciao a tutti, sono una prof di lettere e una dottoressa di ricerca in italianistica, quindi...sì, diciamo che di Dante Alighieri me ne intendo, non sono una specialista, anche perché non credo nelle specializzazioni sugli autori: la personalità umana e artistica non ha un fondo, ergo...non la si può mai conoscere a pieno e nei suoi minimi dettagli. 

Personalmente ho cominciato a leggere la Divina Commedia in autonomia a circa tredici anni, e penso di averla riletta integralmente  almeno una decina di volte...Evidentemente non è  stato il mio prof di lettere del liceo a farmela amare, ho fatto tutto in autonomia, lui però mi ha insegnato a non aver paura di usare e spiegare l'italiano anche nelle sue sfumature di turpiloquio, traendo esempio proprio da Dante, che di parolacce ne ha usate tante ( pure in Paradiso). 

Ammetto che ho un debole per l'Inferno, non tanto perché voce di popolo vuole che sia la cantica meglio riuscita di tutta la Commedia, ma proprio per una questione linguistica, perché a parer mio ( che non sono nessuno) è in questo luogo letterario che avviene la piena commistione dei tre stili che fanno il poetico italiano: comico, tragico, ed elegiaco. Il Purgatorio e il Paradiso conoscono un'elevazione linguistica e stilistica che li rende più difficili nel loro indiscutibile fascino. E poi...l'Inferno è  il luogo dei colori  e delle emozioni forti!

Mi è  stata offerta dalla mia attuale pusher libraria ( Chiara, della storica Libreria Europa, a Palermo in via Uditore) la possibilità di leggere in anteprima L'INFERNO SPIEGATO MALE, e da gran curiosona qual sono non mi sono tirata indietro, più  che altro perché ero alla ricerca di in testo che introducesse alla lettura di Dante i ragazzi di una fascia di età  compresa tra i 10 e i 14 anni. 
È un game book ( libro - gioco, Dantuccio non mi perdonerebbe il forestierismo), e già questa cosa mi ha molto intrigato perché l'autore si muove su un piano metaletterario, ripensando Dante e giocando con il suo personaggio e con quello di Virgilio in una sorta di estrema attualizzazione che li vede muoversi e dibattere avvalendosi di linguaggi e riferimenti alla contemporaneità dei nostri adolescenti (proprio gli adolescenti del 2021, proprio loro). 

L'alternarsi di narrazione, improbabili avvertenze di lettura, spassose pseudoriflessioni dell'editore sulla bontà del suo prodotto letterario e spiegazioni  animate degli Specchietti con la S maiuscola, insieme agli spiritosi disegni di Daw, sono il punto di forza strutturale del volume che affronta e rilegge senza irriverenza (e anche se ce n'è un pizzico, ci sta tutta) ma con grande (tuttalpiù un po' distonica) allegria/ironia la prima cantica della Commedia, e la consegna ai giovani lettori senza falsarne i contenuti, cogliendone invece il profondo potenziale  narrativo, visionario e visivo. 

Un'opera del genere non pretende di SPIEGARE Dante, ma fa qualcosa di più  grande e dimostra qualcosa di ben più  prezioso: l'immortalità di un'opera letteraria. Perché la vera eternità di un classico è  anche questo: la sua  continua attualizzabilità, la possibilità di ravvivarlo con il nostro sangue, decostruendolo e rileggendolo secondo le nostre specifiche esigenze ed esperienze di lettori.
 Dante è ancora una volta personaggio e voce narrante, che si consegna ai ragazzi e lo fa usando il loro linguaggio e coinvolgendoli  in divertenti digressioni narrative ( l'associazione con il Mago di Oz è spassosissima), e in simpatici giochi linguistici;  Dante narratore contemporaneo permette ai lettori di fare delle scelte di lettura all'interno dei capitoli del libro e  proprio per questo dimostra loro la sua vitalità anche quando alcuni suoi atteggiamenti non sarebbero mai potuti appartenere al personaggio storico vissuto nel Medioevo. 

In conclusione L'INFERNO SPIEGATO MALE è un libro che di spiegato male non ha proprio nulla; tutt'altro! Il peccato di incapacità trasmissiva di cui è  stato vittima  l'autore nel suo passato scolastico è  stato pienamente espiato nella costruzione di un'opera  che consente  ai più  giovani ( e non solo) di giocare con un classico senza tempo, stimolandone la curiosità conoscitiva attraverso un colorato e coinvolgente cortocircuito comico-creativo.