giovedì 11 dicembre 2014

Diario di bordo del Patatè del 7 dicembre 2014 - In tutte le migliori famiglie...

In tutte le migliori famiglie si instaurano dei momenti di riflessione, per cercare di analizzare quali sono i punti deboli del percorso che si sta affrontando, e impegnarsi per migliorare o modificare le strategie che si sono adottate, e che forse, sono risultate poco efficaci...
Sembra un discorso ospedaliero, ma la verità è che è un po' difficile metaforizzare cosa è successo nella seconda riunione del Patatè, avvenuta lo scorso 7 dicembre...qualche defezione giustificata (il 7 dicembre è pur sempre vigilia di festa...), qualche promessa non mantenuta, qualche faccia nuova interrogativa e incuriosita...e un serpeggiante sussurrio, che palesava un piccolo doloroso fallimento: quasi nessuno aveva letto il suo classico... Gli elementi c'erano tutti per smontare baracche e burattini e tornare indietro, al porto dal quale questa piccola avventura è cominciata...ma sarebbe stato uno sbaglio: meglio sedersi tutti attorno ad un tavolo e porci delle domande, rischiando di andare un po' fuori tema, ma cercando di chiarirci le idee sul perchè di quello che, fino a questo momento, potrebbe sembrare "un fiasco".
Di fatto abbiamo divagato, e parecchio, complici anche le new entry incuriosite dalla nostra iniziativa; abbiamo fantasticato colorando i nostri interrogativi di "Se", di "Forse" e di "Ma", ma poi abbiamo magicamente ritrovato la nostra bussola ponendoci forse la più scontata ma anche la più necessaria delle domande: "Perché i classici che avevamo proposto, brevi e non particolarmente impegnativi, non sono stati letti o riletti dai presenti? Perché ci siamo bloccati davanti alle loro vetuste e affascinanti pagine?"
È venuta fori una piccola grande verità, che era in fondo quella che speravamo di scardinare: queste pagine fanno un po' paura, la parola classico fa un po' paura, quasi fosse sinonimo di auctoritas sulla quale non si ha il diritto di divagare e di sognare, perchè quelle pagine sono state indagate, scandagliate, interpretate e quasi denudate da critici su critici, per cui il nostro pensiero e più ininfluente di una goccia d'acqua che scivola isolata nel mare.
Fuori dalla scuola e dall'accademia il classico non serve a nulla, su di lui è stato detto e scritto tutto, e quel TUTTO, sintetizzato nei manuali di scuola o peggio nei deliri di qualche accademico,  per una persona di cultura media è servito per farsi interrogare o per svolgere un esame durante la sua carriera scolastica.
È vero, il classico non serve a nulla, non ha una funzione pratica, e questa sua presunta inutilità è stata duramente accentuata dal sistema scolastico e accademico. Perché scuola ed università sono fatte da esseri umani, e gli esseri umani talvolta smarriscono il senso della bellezza perdendosi dietro al nozionismo altrui...eppure quella bellezza è sempre là, e basta poco per riappropriarsene: una lettura ingenua e senza pregiudizi, che metta al centro le emozioni che suscita un libro hic et nunc...senza pensare che quelle pagine le ha scritte Kafka, Puskin o Voltaire. Ci piacerebbe che succedesse questo, non pretendiamo di fare i professori o i critici accademici... vogliamo essere liberi pensatori che in queste prime tappe del nostro viaggio, riscoprono senza vincoli, e in un'atmosfera calda e amichevole,  alcune pagine definite classiche perché hanno superato le barriere del tempo, racchiudendo in sè stesse delle emozioni infinite e sempre vive, che hanno bisogno di noi, e della nostra serena ingenuità per continuare a vibrare, e non devono cristallizzarsi nella furia intellettualoide della critica strutturata e strutturante...
Ci penseremo su, forse ci inventeremo una gara...ma non molleremo...questa pagina del diario di bordo non sarà quindi l'ultima del nostro viaggio, che non è certamente semplice...ma che vuole approdare a qualcosa di bello...
Alla prossima amici!

L.M.


lunedì 10 novembre 2014

Diario di bordo del Patatè del 9 novembre 2014

Il 9 novembre 2014, presso la sede del Piccolo teatro Patafisico di Palermo, si è costituito il gruppo dei Patatè letterari: uno spazio fisico e intellettuale di condivisione, i cui partecipanti, mettendo insieme suggestioni ed emozioni davanti a una tazza di buon thè,  hanno deciso di intraprendere insieme un percorso di lettura creativa.
«Eccoci davanti ad uno dei soliti, banali e noiosi circoli di lettura, che vogliono darsi un tono con appellativi accattivanti ma poco convincenti...» Lettore, ti ho sentito e riesco anche ad interpretare i tuoi dubbi e le ragioni del tuo diniego: pensi che la lettura sia un'esperienza intima che non va necessariamente condivisa, trovi che riunirsi a parlare di lettura sia un passatempo un po' snob se serve unicamente a mettere in mostra una qual mania citazionista che ha del dozzinale; beh, certamente tali pensieri non ti hanno fatto desistere dall'aprire questa pagina e dal cominciare a leggere, quindi, ora che ti ho smascherato non provare a fermarti, soddisfa a pieno la tua curiosità leggendo questo resoconto, magari alla fine cambierai idea...e la prossima volta sarai dei nostri anche tu...
Dunque, abbiamo intrapreso un percorso, che, come tutti i bei viaggi che approderanno ad una qualche meta, deve essere documentato: un gruppo di amici, alcuni non lo erano ma,  da ieri, lo sono diventati (anche se, magari, ancora non lo sanno) le luci soffuse, nessun diaframma e una (non) domanda per iniziare: Noi e i libri.
Inutile in questa sede citare titoli, più costruttivo riportare le suggestioni che ci hanno accompagnato e che hanno segnato la prima tappa del nostro viaggio: abbiamo stabilito che a livello emotivo non può esistere IL libro che ci ha cambiato la vita, e ci ha trasformato in lettori, sebbene possa esistere a livello storico, quello sì, ma diciamolo pure, non è così importante...
Molto più importante è il rapporto totalizzante che abbiamo sviluppato con I libri, non privo di un carattere fortemente erotico e passionale, che in determinati periodi della vita può anche essere incontrollabile ma che è fondamentale e bruciante...
Amore per le parole, per il modo in cui sono tessute insieme (testo- textus) , in quella magia evocativo - descrittiva fatta di significati profondi nascosti e palesati nei suoni, nei colori e nei sapori evocati in ciascun libro in modo diverso e unico: e non stiamo parlando necessariamente di classici o  di libri che andrebbero riletti, analizzati, contestualizzati o decontestualizzati, ci sono racconti che leggeremo svariate volte nella nostra vita, e storie che rimarranno lì, fisse nel ricordo di un momento particolare e non le rivedremo mai più... tuttavia nessuna citazione è veramente necessaria, ogni testo (se letto con cuore innamorato) lascia un'impronta più o meno profonda, ci impressiona come pellicole fotografiche e resta in noi...  I libri SIAMO noi, noi siamo il loro sangue (lo diceva il buon Nietzsche) ascoltare una citazione comodamente seduti al tavolino, ha confermato questa anaforica (violenta e sanguigna) impressione.
Sia ben chiaro, proprio perchè eravamo tra amici, vecchi, nuovi e presunti, questa scoperta si è svolta in modo naturale, con qualche distrazione e naturale obiezione, intervallata da fresche risate neonate e da battute divertite e disincantate...non è stato forse in primo passo di una creazione? Abbiamo confermato di amare in modo fisico la lettura, di non considerarla fine a se stessa, di non ridurla ad un banale atteggiamento cumulativo ("Io di libri ne ho letti un sacco e tu nooo!!!!" "Io ho un taccuino in cui appunto i titoli di tutti i  libri che ho  letto!"), nè tantomeno citazionista...e abbiamo cominciato a scavare un solco orizzontale da seguire, inseguire e seminare... un mese di tempo per (ri)scoprire un classico (UNO SOLO, E ANCHE BREVE) internazionale, uno di quelli che ci sciroppavano a scuola...cinque titoli da sorteggiare (sì sorteggiare, per giocare un po') uno per ciascuno (per provare a formare cinque gruppi omogenei nella loro naturale disomogeneità): RUSSIA Puskin La figlia del capitano, AREA ISPANICA G. García Marquez  L'amore ai tempi del colera, FRANCIA  Voltaire Candido,  INGHILTERRA G. Orwell  La fattoria degli animali, AREA MITTELEUROPEA F. Kafka,  la Metamorfosi.
La nostra riunione si è sciolta così, con un impegno e un sorriso; nel mezzo della lettura indicheremo anche qualche suggestione da seguire per rispondere a due semplici domande, che ci permetteranno di continuare a costruirci come lettori creativi...(ci perdonino i libertini, ma per costruire un percorso, qualche paletto lo dobbiamo pur porre...)
Buona lettura o rilettura amici, ci vediamo il 7 dicembre...
E a te, scettico curioso lettore di questo diario di bordo non mi resta che dire: benvenuto, se vorrai unirti a noi...sappi che ti aspettiamo, saremo tra amici!
Un caro saluto

L.M.
Per saperne di più  https://www.facebook.com/groups/patateletterari/

lunedì 8 settembre 2014

La trilogia delle Cinquanta sfumature ovvero: Anastasia Steele e Christian Grey,storia di una Cenerentola erotica e del suo principe (azzurro?)

...Una "stroncatura" scontata...

             Avevo promesso a me stessa e alla mia biblioteca personale che non avrei mai acquistato la trilogia delle  Cinquanta sfumature ideata dalla signora James, tuttavia tale proposito non equivaleva al rifiuto categorico di leggerla, e dal momento che nell'era del digitale è diventato semplice procurarsi senza spreco di carta e denaro un libro in formato pdf o in e-pub, specialmente quando si tratta di un prodotto di consumo su larga scala, ho deciso di accettare la graziosa e androidiana  compagnia di Anastasia Steele e di Christian Grey le cui vicende si sono dipanate, per un periodo di tre settimane, sul display del mio smartphone...
«Che orrore!» Potrà subito nicchiare qualche intellettuale puritano ( più che altro di sesso maschile) amante della bella (e soprattutto della vera) letteratura, «sprecare il proprio prezioso tempo dietro un romanzo bollato come "romantico-erotico" che di letterario - almeno a prima vista, ma, oserei dire,  anche a seconda - non ha proprio nulla...» Posso subito affermare con certezza che non credo di aver perso tempo, mi sono solo presa una pausa dalle letture impegnate per analizzare quello che è di fatto diventato un fenomeno, se non proprio letterario, almeno mediatico, sapendo di possedere freddezza e strumenti critici a sufficienza per poter esprimere un giudizio obiettivo, oltretutto la dematerializzazione offertami dal sistema android, mi ha fatto scoprire  (e apprezzare)  una maniera  di lettura più snella e senza pretese, che si è rivelata perfettamente funzionale a questo genere di romanzetti.
              Ci sono volute tre settimane, ma a dirla tutta, ci si potrebbe mettere anche meno tempo: La storia di Anastasia Steele e Chistian Grey è di fatto un'elegante accozzaglia di luoghi comuni fiabeschi  sapientemente cuciti  dall'autrice, che irretiscono con facilità la lettrice: Anastasia è una timida e brillante  studentessa di ventuno anni, laureanda in letteratura inglese, figlia unica, appartenente a una famiglia piccolo borghese, è carina senza essere particolarmente vistosa, non è troppo romantica o sdolcinata e soprattutto non ha mai "conosciuto un uomo" biblicamente parlando. Christian è il classico giovane imprenditore rampante di bell'aspetto e maniaco del controllo, figlio adottivo di genitori benestanti e amorevoli che non sono riusciti a sanare le ferite causategli da un passato oscuro fatto di maltrattamenti, canalizzate tuttavia in una relazione con una donna più grande di lui ( che, guarda caso, si chiama Elena, sarà forse uno scontato riferimento colto ad altre sensuali figure letterarie che portano il suo stesso nome?)  la quale dai sedici ai ventuno anni di Christian, è stata il suo mentore sessuale e gli ha insegnato uno stile di vita volto alla dominazione.
Se Anastasia non ha mai avuto alcun genere di relazione sentimentale, Christian da buon protagonista maschile, bello e tormentato quale deve essere, non si è mai innamorato, ha solo avuto una sapiente formazione sessuale che si è affinata, previa firma di un regolare contratto con tanto di clausole esplicative,  con una quindicina di donne, le cosiddette "sottomesse", ovvero delle povere "disgraziate" che sono state oggetto delle più inaudite (e scontate) perversioni sadiche del fascinoso e tormentato protagonista maschile della trilogia.
         I due si incontrano per caso, si piacciono, e si innamorano pressochè immediatamente, con tutte le problematiche che questo sentimento (così inatteso?) può provocare, ovvero con un continuum di masturbazioni mentali sulla  liceità delle loro emozioni, che mandano all'aria qualsiasi contratto, e che fra alti e bassi li porterà all'happy end con tanto di prole al seguito.
Una storia che si divide in tre tomi, ma che di fatto si consuma in meno di cinque mesi, in cui l'educazione sessuale di Anastasia la fa chiaramente da padrona: il sesso "alla vaniglia" ovvero quello praticato da più della metà dei comuni mortali, con tutte le sue posizioni più classiche, è declinato in pressoché tutti i capitoli dei tre romanzi, con dovizia di particolari, a questo si aggiungono delle brevi e ben poco folgoranti esplorazioni del sesso estremo, anch'esse particolarmente scontate nel loro supposto estremismo strumentale (bende, lacci, frustini e giocattolini vari che non impressionano un granché). Fa da contraltare alla singolare educazione di questa cenerentola erotica, quella del principe (azzurro?) Christian, maestro del piacere iniziato all'amore, con tutti i turbamenti che questo comporta, i quali sono (ovviamente) psicanalizzati dietro le quinte dal suo "strizzacervelli" di fiducia: il buon dottor Flynn.
         Di fatto la scorrevolezza della trilogia non è data tanto da fattori di immedesimazione con il personaggio femminile, seppure il fatto che sia Anastasia a raccontare la sua storia in presa diretta (il narratore interno e autobiografico è proprio una furbata) rappresenti un chiaro segnale mediatico di chi siano le destinatarie di quest' opera. Lo scopo è piuttosto quello della comunione simpatetica con entrambi i protagonisti: insomma ci troviamo nella testa e nel corpo "sempre pronto" di Anastasia, ma manipoliamo i sentimenti e le fragilità  del buon Christian, che, innamorato cotto qual è, fa quasi tenerezza nei tentativi di  archiviare il suo passato  di bambino abusato e di intoccabile Dominatore (dove con la parola "dominatore" si intende "uomo che, previo regolare contratto, compie prodezze sessuali, senza farsi coinvolgere da alcun sentimento e senza farsi sfiorare con un dito") e di canalizzare ciò che prova non solo nelle sue fantomatiche erezioni, ma nella vita di tutti i giorni, costellata di una serie di sconcertanti "prime volte". Inoltre, essendo ricco sfondato, le sue esternazioni corrispondono necessariamente al suo stile di vita: quindi via libera ai regali costosi, alla possibilità di raggiungere Anastasia in qualsiasi posto si trovi grazie ai potenti mezzi di trasporto a sua disposizione  e a una plateale proposta di matrimonio che si materializza dopo poco più (o poco meno) di un mese di conoscenza.
...e una riabilitazione (?)...

          Osservando attentamente la trilogia di  Cinquanta sfumature  è possibile cogliere alcune costanti che ne garantiscono la leggibilità mantenendo alto il livello di suspense e garantendo un affidabile patto narrativo con i lettori.

     Nessuna necessità di ritornare indietro: Lo stile di scrittura della James fonde il linguaggio dei romanzi rosa  di alto consumo (Harmony, per intenderci) con un forte intento iconografico che indugia nei particolari, per cui i nodi narrativi della vicenda si imprimono con facilità nella mente dei lettori; inoltre l'inserimento della scrittura epistolare che si esplica nello scambio  di e-mail e di sms dei due protagonisti, offre una precisa scansione temporale della storia, oltre ad essere un ottimo artificio straniante che permette di indagare (in modo molto tradizionale) gli stati d'animo di entrambi i protagonisti.

       Riferimenti letterari espliciti: Abbiamo già accennato alla  singolare questione onomastica che vuole che l'antagonista femminile per eccellenza di Anastasia si chiami Elena, come la più famosa delle seduttrici letterarie(e del resto anche il suo soprannome "Mrs Robinson" fa riferimento a un film culto per quanto concerne la seduzione, ovvero Il laureato); anche Jack Hyde porta un cognome che vuole enfatizzarne la natura perversa  (come non pensare a Dottor Jekyll e Mr Hyde?)  Anastasia ha invece il nome della principessa Romanov protagonista dell'omonimo film Disney, e  il nome "Christian" ha in sé una chiara nota di filantropia. Inoltre la protagonista è una studiosa di letteratura inglese, e il più volte citato romanzo di Tomas Hardy  Tess dei d'Urbervilles  funge da cartina al tornasole della sua vicenda.
      
      Questione di tempi: Abbiamo già accennato al fatto che la vicenda si consuma in un lasso di tempo relativamente breve, come del resto succede in tutte le migliori fiabe, il tempo della storia di fatto si dilata in quanto osservato dal punto di vista della protagonista che assapora e riporta minuziosamente le sue esperienze, con un andamento narrativo talvolta sfiancante  (che "eleva l'ordinario allo straordinario", per dirla con le parole della protagonista), specialmente quando si sofferma sulle sue esperienze sessuali, che sembrano eccessive anche per quanto riguarda il loro numero, ma che se collocate  nel fiorire di un nuovo rapporto sentimentale, perdono qualsiasi eccezionalità.

       Il lato oscuro non esiste: Christian Grey  è il protagonista maschile di una saga che vuole essere soprattutto romantica, per cui ogni sua perversione deve essere giustificabile e perdonabile:non si fa toccare perchè da bambino è stato maltrattato, la sua educazione sessual-sentimentale è stata compiuta da una figura materna che ha quindi abusato di lui senza il suo reale consenso, in caso di necessità le sue ex sottomesse hanno goduto del suo aiuto e della sua protezione anche dopo lo scioglimento del contratto.
Di fatto Christian è ricco ed è un filantropo, spende i suoi soldi per soddisfare ogni sua  esigenza, anche la più frivola  e nello stesso tempo destina molti dei suoi averi per la realizzazione di progetti ecosostenibili e per aiutare le popolazioni di paesi più sfortunati. Una figura del genere è in realtà priva di lati oscuri, e le cinquanta sfumature di cui si vanta sono più che altro di natura umorale. Inoltre il suo innamoramento adolescenziale per Anastasia lo rende ancora più simpatico al lettore per la sua palese incapacità di dosare le emozioni. Da questo punto di vista è molto interessante la conclusione di  Cinquanta sfumature di rosso,  in cui la James riscrive il primo capitolo della trilogia avvalendosi del punto di vista di Christian: attraverso questa lettura incrociata si recuperano di fatto alcuni aspetti caratteriali di questo contemporaneo principe azzurro (o "cavaliere bianco", come lo definisce Anastasia).

         Antagonisti necessari (Propp docet): il giustificabilissimo tasso erotico di  Cinquanta sfumature di grigio,  ha bisogno di essere stemperato da qualche nota giallo-noir per cui, se nel primo libro i personaggi che creano un qualche turbamento alla protagonista sono solo dei nomi ( "Mr. Robinson" ovvero Elena Lincoln, Jack Hide, l'ex sottomessa Leila) nel secondo e nel terzo episodio della saga acquistano un certo spessore, sebbene il loro intento non sia specificamente quello di rovinare la storia di Christian e Anastasia, le antagoniste femminili  sono semplicemente delle disturbatrici adrenaliniche, Hyde è invece  un sabotatore violento,  ma anche in questo caso gli intenti dell'autrice sono chiarissimi: Leila ed Elena rappresentano la materializzazione del passato "erotico-sentimentale" di Christian nel quale Anastasia deve necessariamente specchiarsi per comprendere a pieno la sua specificità e unicità di donna amata; la crudele perversione criminale di Jack ( che oltretutto è anche lui orfano e ha vissuto per un breve periodo nella stessa famiglia affidataria di  Christian) serve a confermare la relativa onestà e purezza d'animo del protagonista maschile, a prescindere dalle sue abitudini sessuali.

       Gravidanze (im)previste: Il matrimonio lampo tra Christian e Anastasia è giustificabilissimo data la loro posizione economica la quale permette il coronamento di un sentimento che, con tutte le sue implicazioni erotiche, deve necessariamente definirsi genuino. La gravidanza della protagonista invece...è altrettanto prevedibile e auspicabile per arrivare al necessario happy end della trilogia: Anastasia dapprima dimentica di prendere la pillola anticoncezionale e poi procrastina senza neanche rendersene conto, la data dell'iniezione contraccettiva consigliatale dalla ginecologa, ma di fatto sembra che i contraccettivi non le abbiano mai fatto effetto, per cui la giovane rimane incinta praticamente subito, senza rendersene conto. La gravidanza spazza via le ultime barriere sentimentali innalzate dal buon Christian che, come da copione, in un primo momento non la prenderà bene, ma in seguito, travolto letteralmente dagli eventi che metteranno anche in pericolo la vita del suo grande e unico amore, si ravvedrà. La dimensione di coppia lascerà quindi il posto a quella familiare, con la nascita del piccolo Ted e la nuova gravidanza di Anastasia, due eventi gioiosi che coroneranno l'amore dei giovani protagonisti  lasciando tuttavia spazio alla loro intimità di coppia (anche a quella più spinta).
        
      Una fiaba per adulte: La trilogia di Mrs. James è senza alcun dubbio un prodotto commerciale di qualità relativamente mediocre (il termine "mediocre" vuole essere privo di accentuate sfumature dispregiative), ma ben strutturato; prova ne sia il fatto che  Cinquanta sfumature di grigio è diventato un film che di certo attirerà moltissimo pubblico, ma che, come tutti i riadattamenti cinematografici, non potrà riflettere a pieno le strategie narrative adottate dall'autrice. Bollare Cinquanta sfumature,  come letteratura spazzatura sarebbe estremamente semplice e anche banale: non è di fatto una vicenda che merita nessuna demonizzazione, in quanto, come crediamo di avere dimostrato, è una costruzione letteraria  che si fonda su un solido patto narrativo con suo il pubblico, fatto anche di richiami letterari necessariamente impoveriti e per certi versi volgarizzati, ma che non sono affatto trascurabili. È necessario prendere i tre libri di Cinquanta sfumature di grigio, rosso e nero, per quello che sono: una fiaba contemporanea per persone adulte (che sarà tuttavia fruita anche da un pubblico adolescente), esasperazione bibliografica del celeberrimo film di  Pretty woman, racconto di un amore sincero e privo censure, tanto impossibile quanto reale e perfino noioso e scontato; una lettura riservata prevalentemente a un pubblico femminile,  che non lascia affatto senza fiato. Può essere stuzzicante e un po' frustrante se svolta senza alcuna riflessione "metaletteraria", ma a un'attenta disamina, può anche rivelarsi un passatempo disimpegnato non privo di piccole sorprese stilistiche.


domenica 6 luglio 2014

SUL SIGNORE DEGLI ANELLI (Alcuni buoni motivi per leggere il libro di J. R. R. Tolkien pur avendo visto la trilogia di Peter Jackson)



Decidere di leggere  Il Signore degli anelli  dopo aver visto e rivisto la trilogia di Peter Jackson, potrebbe essere giudicata una scelta ridondante nonché faticosa, vista la ponderosità del capolavoro letterario di J.R. R.Tolkien.
Dopotutto l'opera cinematografica ci ha regalato una riduzione filologicamente attendibile (ovvero, un'interpretazione comunque personale) dei tre libri, gli effetti speciali hanno permesso agli spettatori di vivere esperienze che sarebbero rimaste appannaggio della loro pura immaginazione,  gli attori hanno dato il loro corpo e il loro sangue ai personaggi, facendoli agire, soffrire e gioire insieme a noi attraverso il medium del grande schermo. Il Signore degli anelli è quindi un romanzo diventato una sceneggiatura che  ha aperto la strada a tanti altri romanzi-copioni di genere affine i quali, appena pubblicati, sono diventati dei film  o delle serie fantasy.
Tuttavia si arriva subito a una chiave di volta: Molti racconti fantasy hanno avuto appena il tempo di essere pubblicati e sono stati trasformati in un prodotto visivo e commerciale, è quello che è successo anche ai romanzi di Harry Potter, sebbene in tal caso l'intento della saga letteraria fosse squisitamente educativo, e questo elemento si è riversato anche nei film ispirati al maghetto. La letteratura fantasy contemporanea è insomma un prodotto che aspira alla riduzione cinematografica essendo carica di creature sempre più strane e bisognose di effetti speciali sempre più raffinati  per prendere vita.
 Il Signore degli anelli  è stato concepito più di sessant'anni fa, ed è innanzitutto una sapiente costruzione letteraria che interseca tra loro  temi fiabeschi, motivi ispirati alle saghe nordiche e valori esemplari dell'epica classica, cuciti con acribia filologica, geografica  e storiografica tale da permettere all'autore di inventare e rappresentare con realistica puntualità  luoghi, ere e linguaggi. Questo è forse l'elemento meno interessante per il pubblico di massa, ma è tuttavia  inconfutabile  il fascino che emana nei lettori più attenti e bendisposti: mappe, alfabeti, pronunce, periodi storici ed alberi genealogici inesistenti eppure documentati e ricostruiti in accurate cronologie in appendice ai tre (ovvero sei) libri di questa saga il quale scopo è chiaramente quello di una manzoniana verosimiglianza alla rovescia: i farri appartenenti alla dimensione fantastica  diventano  più reali della realtà stessa anche in forza dei fanta-documenti che ne danno testimonianza.
La dimensione epica del racconto è certamente quella che si coglie meglio attraverso la lettura  del Signore degli anelli: il valore del canto e delle storie è più volte riaffermato nelle pagine del romanzo di Tolkien, Gli Ent elencano i nomi delle creature della terra di mezzo per mezzo di lunghi poemi, il gioioso personaggio, unicamente letterario e senza tempo, di Tom Bombadil, vive cantando e ridendo, insensibile alla seduzione di qualsiasi forma di male,  Bilbo è un compositore di canzoni, e ha scritto  il libro delle sue avventure che sarà continuato da Frodo e portato a compimento da Sam, e ogni creatura della terra di mezzo vive di racconti e di canti istoriati che conservano e celebrano vicende passate e presenti. Tutti appartengono ad una storia e le grandi storie non hanno mai fine; sono riflessioni del saggio Sam che rimbalzano anche sulle labbra di Frodo e Pipino, e il canto scioglie le tensioni e sublima le sofferenze nel sorriso.
Quel sorriso, che insieme alla risata pura e schietta, si oppone al male e lo sconfigge, umanizzazione della luce che si oppone alle tenebre: il suono, singolare in un campo di battaglia, della risata di Eowyn davanti al Re Stregone poco prima di sconfiggerlo ne è un chiaro esempio, come anche lo sono le risate di Merry e Pipino davanti alle rovine di Isengard quando si riuniscono finalmente ai membri della compagnia dell' Anello, e ancora è la risata di Gandalf  a rianimare  Sam e a provocare il suo pianto liberatorio (seguito anch'esso da una risata) quando si risveglia al termine della sua avventura e si rende conto di non aver sognato ma di essere riuscito nella sua impresa insieme all'amico Frodo.
Anche l'esemplarità dei personaggi è più marcata nelle pagine del Signore degli anelli rispetto al film: tutti gli  Hobbit sono “dolci come il miele e resistenti come le radici di alberi secolari”, sebbene poi ciascuno mostri delle sfumature caratteriali e comportamentali proprie (Sam è il saggio coraggioso, Frodo è la vittima sacrificale incompresa, Merry e Pipino sono degli Hobbit combattenti);  Aragorn è l'impavido e salvifico re  "amato dal mondo" che in un certo senso si oppone prima a Boromir l'impetuoso e poi al fratello di lui Faramir, il quale è invece un personaggio riflessivo, sensibile e coraggioso; Gandalf è il sapiente cercatore, Gimli e Legolas sono gli amici che si completano nonostante le differenze che li caratterizzano; Arwen è la Stella del vespro che si contrappone alla luce del mattino di Galabriel;  Eowyn è la donna guerriera che soffre ama e combatte; lo stesso Gollum è una creatura divisa a metà vittima dell'anello, memore del passato sereno di Smaegol, alter ego esasperato di Frodo.
Questi sono solo alcuni degli elementi esemplari del romanzo che i film cercano di trasmettere ma che perdono molto nella resa visiva. Leggere  Il Signore degli anelli  essendo già a conoscenza della sua trama cinematografica permette innanzitutto di recuperare questi aspetti e di scoprire  delle sottili trame  che la celluloide ha dovuto necessariamente bandire ma che sono delle portatrici di significati profondi e degni di essere riscoperti proprio attraverso la lettura: la lotta tra il bene è il male è anche lotta tra le diverse forme di male, quello assoluto e quello più umano che non possono affatto conciliarsi; il motivo della quête (ricerca) e del nostos ( il viaggio di ritorno) si intrecciano indissolubilmente con il polemos (la guerra) che continua oltre la missione dell'anello per la pacificazione della Contea.
La lettura permette inoltre di dare il nostro sangue ai personaggi e di farli rivivere secondo la nostra personale prospettiva, e l'epos tolkieniano si presta ad essere interiorizzato e rivissuto dal lettore attivando la sua naturale empàtheia immaginativa.
"Le grandi storie non conoscono fine", perchè gli scrittori hanno profuso in esse la loro sapienza costruttiva ed emozionale ma anche perchè i lettori hanno la facoltà di non farle morire. Non è un caso che il piccolo Bastian, protagonista della trasposizione cinematografica di un altro grandissimo romanzo fantasy portatore di diversi livelli di significato qual è La storia infinita  di Michael Ende, citi tra i romanzi che ha letto proprio Il Signore degli anelli,  è infatti anch'esso una storia infinita, a livello narrativo, interpretativo, ed esperienziale: il lettore  può tornare indietro e rileggere una pagina cogliendone molteplici significati, se ne possono apprezzare le vibrazioni  liriche e i chiaroscuri  in versi e in prosa che si fondono con la narrazione, e ogni vicenda, nella sua verosimiglianza capovolta può sovrapporsi alla nostra storia personale e sociale e  alle storie di tutti i tempi.
Un ultimo valido motivo per leggere Il Signore degli anelli  è senz'altro la sua inconfutabile bellezza, che ne fa un classico, e che svelandosi pagina dopo pagina, vince gli indugi suscitati nei lettori dallo spessore delle sue pagine, ed emoziona con le descrizioni che indugiano nei particolari e i paragoni pittorici di un tipo di scrittura che oggi sembra non esistere più, ma che continua a far vibrare e a tenere desti gli animi.

giovedì 1 maggio 2014

Una saga fantagalattica e demenziale che spiega la complessità dell’Universo: La guida galattica per gli autostoppisti.

Cosa succederebbe se la Terra fosse distrutta da un’astronave aliena per far posto ad una superstrada galattica? E’ questo che raccontano i cinque episodi della Guida galattica per gli autostoppisti,  epopea fantagalattica scritta da Douglas Noel Adams tra il 1979 e il 1984 e pubblicata nella Piccola Biblioteca Oscar Mondadori.
La saga vede protagonisti il terrestre Arthur Dent, che si salva dalla terribile tragedia della fine del modo con l’aiuto di Ford Prefect, un alieno, esperto autostoppista galattico, che abita sulla Terra da 15 anni e si occupa dell’aggiornamento della Guida galattica per autostoppisti. I due sgangherati amici intraprendono uno straordinario viaggio nell’universo spazio-temporale, insieme al presidente della galassia, il bicefalo Zaphod Beeblebrox, alla terreste Trillian, e al super intelligente (e super depresso) robot Marvin.
I cinque episodi della saga (Guida galattica per gli autostoppisti, Ristorante al termine dell’Universo; La vita, l’universo e tutto quanto; Addio, e grazie per tutto il pesce; Praticamente innocuo)  si snodano tutti (in maniera non omogenea) intorno a questi cinque personaggi, sebbene siano soprattutto Arthur e Ford i due grandi protagonisti di questa vicenda paradossale.
Pur essendo stata pubblicata più di trent’anni fa la  Guida  si confronta con temi di straordinaria attualità come l’asservimento dell’uomo alle macchine, la ricerca del significato dell’universo, il relativismo spazio-temporale che porta ad ipotizzare non solo l’esistenza di altri mondi ma anche di dimensioni alternative in cui uno stesso pianeta acquista forme differenti. L’uomo, abitante di un pianeta “Praticamente innocuo” (come lo definisce tristemente la Guida) si confronta con un Universo complesso e confuso (Un “gran casino generale”) e scopre di non esserne il centro, del resto l’antropocentrismo è smentito dalla scoperta che sono i topi gli esseri più intelligenti della Terra, seguiti dai delfini!
Douglas Adams ha costruito una storia avvincente e demenziale, talvolta irritante nella sua lucida irrazionalità, che tuttavia rappresenta  l’incomprensibilità dell’Universo con leggerezza e profondità. Il ritmo della vicenda, rapido e scoppiettante nel primo episodio della saga, si fa  un po’più lento in Ristorante al termine dell’Universo,  in cui l’elemento riflessivo e speculativo fa parte a sé, non agglutinandosi all’azione.
Ma sono le guerre di Krikkit, ne  La vita, l’universo e tutto quanto, a costituire il cuore di questa epopea, il pianeta Krikkit è infatti una metafora della Terra, un mondo egocosmico, falsamente ecologista, che aspira a distruggere tutti gli altri pianeti dell’universo. Ma ancora una volta Arthur e Ford riusciranno a salvare la galassia, grazie all’aiuto del robot Marvin, protagonista di uno spassosissimo dialogo con un materasso sul pianeta Sconchiglioso Z.
Ma, alla fine, questa Terra sarà stata distrutta davvero? Allora come mai Arthur, che fra un’avventura e l’altra ha anche imparato a volare,  si ritrova a casa sua in  Addio e grazie per tutto il pesce ? e soprattutto; che fine hanno fatto i delfini? Che sia stato tutto un sogno? Considerato che Arthur ha trovato l’amore, ma che questo amore ha qualcosa di strano (come del resto è strano un singolare oggetto di vetro che qualcuno, non si sa chi, gli ha regalato) , è un po’ difficile credere che tutte le sue sgangherate avventure siano state frutto di un lungo sogno…è molto più probabile che l’asse della probabilità, con i suoi squilibri spazio temporali gli abbia giocato qualche brutto scherzo, come ad esempio quello di fargli avere una figlia proprio con Trillian (una bambina chiamata Casualità, in  Praticamente innocuo), mentre in un’altra dimensione la stessa Trillian si strugge per non aver seguito Zaphod nello spazio e cerca di sfondare come giornalista…
Fra l’altro, la casa editrice che distribuisce la guida galattica per gli autostoppisti vorrebbe mutarne la struttura e  modificare la fetta di mercato a cui si rivolge, facendo scrivere a Ford Prefect solo recensioni sui ristoranti.
La guida galattica per gli autostoppisti ha una trama coinvolgente e complicata, che tuttavia conosce anche dei momenti di debolezza e che può diventare irritante per l’irriverenza con cui si confronta con quelli che noi consideriamo dei problemi di vitale importanza.
Eppure questa avventura paradossale  si rivela sconcertante perché le risposte che ci fornisce sono plausibili, acute ed incredibilmente credibili, anche quando appaiono a prima vista incomprensibili, ma del resto il messaggio che appare sullo schermo della guida quando si attiva parla chiaro, confortandoci e orientandoci in questa (Allegra? Babelica? Galattica?) confusione : NON FATEVI PRENDERE DAL PANICO. Un suggerimento che non possiamo non tener presente.


lunedì 7 aprile 2014

Vizi e virtù di un prodotto letterario:Acciaio di Silvia Avallone

Ci sono romanzi che acquistiamo per pura curiosità, specialmente quando fanno capolino con la loro accattivante copertina rigida sugli scaffali della nostra libreria di fiducia.
Poi cominciano a leggerli, e magari ci attacchiamo letteralmente alla sedia per vedere come vanno a finire, ma arrivati all’ultima pagina ci accorgiamo che qualcosa non quadra…
Acciaio (Milano, Rizzoli 2010), opera prima della giovane scrittrice biellese Silvia Avallone, è un romanzo che corrisponde a questa identikit, è infatti un’opera di grande fruibilità che però si disintegra in una bolla d’aria.
La Avallone ha uno stile di scrittura gradevole e sa essere avvincente, la lettura infatti scorre veloce senza intoppi, anche grazie ai numerosi dialoghi e monologhi che sono parte fondante della struttura di questo corposo romanzo diviso in quattro parti; tuttavia nonostante abbia dimostrato di essere capace di cimentarsi in una tipologia scrittura relativamente accattivante, non è riuscita a costruire una storia di spessore.
L’autrice racconta le vicende di due bambine-adolescenti, le rappresenta nel loro micro-habitat,ovvero i casermoni di Via Stalingrado a Piombino, immerso a sua volta nella più grande realtà della classe operaia della tentacolare acciaieria "Lucchini"e scosso dalla grande tragedia dell’11 settembre, tuttavia piccoli e grandi avvenimenti non si incontrano, si sfiorano solamente sovrapponendosi fra loro.
Anna e Francesca, le due giovani protagoniste, stanno per compiere 14 anni, e sembra quasi che la loro vita debba essere decisa in questo delicato periodo di passaggio,è l’anno che le porterà dalla terza media alla prima superiore. Sono due grandi amiche, il loro rapporto è profondo e quasi simbiotico, ma imboccano due strade differenti e un rapporto magico, e quasi primordiale nella sua intimità, si sfalda irrimediabilmente: quello delle due ragazzine è un piccolo mondo scosso da avvenimenti altrettanto piccoli, che tuttavia diventano, enormi per le loro piccole anime, ferite a morte dalla fine di un’ amicizia così forte.
Francesca, è un’adolescente algida, filiforme ed eterea, vittima di un padre morboso e di una madre inaridita, ma indagare nei suoi pensieri e scoprire che non le piacciono i ragazzi facendola diventare una ballerina di lap-dance a 14 anni non serve ad altro se non a caricare pateticamente un personaggio che appare chiuso, sul punto di sbocciare, ma non ancora perfettamente sbozzato, a differenza della sua amica Anna, che è invece così definita nelle sue infantili decisioni come nelle curve del suo corpo adolescenziale, deflorato dal bel Mattia, il poco raccomandabile amico di suo fratello Alessio.
Adolescenti di questo tipo esistono senza dubbio, ma Francesca ed Anna hanno qualcosa di eccessivo, animalesco ed esasperato, sono troppo verisimili per essere anche credibili. Un eccesso di verità si traduce in un ritratto falso, in cui non ci si immedesima, si diventa piuttosto spettatori di scene morbosamente reali.
Ma sono soprattutto le conclusioni di questa storia, che in realtà dovremmo definire una non-storia, a lasciare l’amaro in bocca.
Acciaio, in fin dei conti non racconta nulla, tratteggia piuttosto uno spaccato di vita, segnato dall’inevitabile separazione di due amiche che diventano grandi in maniera poco (o troppo) ortodossa; per cui la Avallone, dopo essersi soffermata in maniera quasi pedante su questo distacco, fa riavvicinare Anna e Francesca che si ritrovano ormai quasi donne, e senza parole, dopo un anno di dolori ed esperienze che le ha inevitabilmente mutate.
Il tempo non ritorna e tutto quello che è successo non può essere cancellato; la Avallone ha scelto la via meno problematica, e più scontata e pessimista, per concludere il suo romanzo: Francesca vive ancora con dei genitori che sono assimilabili a due spettri, e fa la ragazza immagine; la famiglia di Anna ha perso il suo unico sostegno economico con la tragica morte di Alessio…
Qualcosa non torna, troppi dubbi rimangono sospesi, in attesa di una risoluzione, non c’è alcuna possibilità di redenzione, e l’autrice non lascia neanche intravedere uno spazio in cui esprime un’effettiva condanna.
Acciaio è un libro scritto con l’evidente scopo di diventare un film, è questa l’impressione che ci lascia. Quelli che leggiamo non sono capitoli, sono già scene, di qualità relativamente scarsa, ma che puntano su un forte impatto emotivo e potrebbero per questo motivo attirare un vasto pubblico.
Gli ingredienti per un bel melodrammone campione di incassi ci sono davvero tutti: un’amicizia dai contorni lesbo, una ragazzina che si fa “sbattere” da un giovane aitante, due tragedie familiari che si consumano contemporaneamente…ma tutto si chiude troppo frettolosamente, come se si volessero nascondere delle ferite aperte e sanguinanti con delle vistose ed inutili toppe.
Un bel prodotto letterario, un prodotto appunto, che non riesce a sollevarsi da una fastidiosa, commerciale, banalità.



lunedì 31 marzo 2014

UN SOGNO IN PUNTA DI PENNA: LO SPECCHIO NELLO SPECCHIO DI MICHAEL ENDE

Che cosa accade di un sogno, quando colui che lo sogna si desta? Finisce nel nulla? Non esiste più? Ma io voglio uscire di qua…sul serio! Non voglio più sognare di esserci. Non voglio neppure farmi sognare chissà da chi. O forse non facciamo altro che sognarci a vicenda? Un intreccio di sogni, un groviglio senza confini, senza fondo? Siamo tutti un unico sogno che nessuno sta sognando?

Lo specchio nello specchio di Michael Ende (edito per la prima volta nel 1984 e pubblicato in Italia dalla Teadue giungendo nel 2009 alla sua ottava edizione) è un libro strano: l’autore intesse, con straordinaria perizia narrativa, trenta racconti onirici, privi di titolo e legati l’un l’altro da un impalpabile ed enigmatico fil rouge.
Quella tratteggiata da Ende è  una dimensione parallela e simbolico-allegorica, si tratta tuttavia di simboli e allegorie, che hanno l’intrinseca necessità di essere riempite di significato dal lettore, ma che talvolta rimangono vuote come magnetici buchi neri.
La dimensione del sogno è amplificata da quella del labirinto: “soltanto chi lascia il labirinto può essere felice ma soltanto chi è felice può uscirne”,  si legge nel secondo racconto,  Lo specchio nello specchio  è infatti un labirinto di parole e di immagini che imprigiona i suoi surreali protagonisti insieme ai lettori che decidono di confrontarsi con le loro vicende, ricercando un senso che talvolta credono di afferrare, ma che rimane denso ed oscuro, fino all’ultima parola di questo enigmatico crogiuolo di  storie.
Non resta che arrendersi a questo insolito ginepraio in cui suggestioni classiche e motivi religiosi si incontrano e si scontrano con il senso dell’inconoscibile e del tempo che passa, in un amalgama surreale e visionario che trae la sua linfa anche dalle opere del padre di Ende, il pittore surrealista Edgar (a cui del resto questa raccolta è dedicata) quasi a voler essere una sorta di trasposizione verbale dei suoi quadri.
Tuttavia questo senso di impotenza e di apparente inutilità davanti a delle vicende incomprensibili lascia perplessi, il lettore deve diventare una sorta di specchio in cui queste storie si riflettono e rimbalzano nella loro cangiante enigmaticità, si trova infatti davanti a un affresco di parole in cui agiscono creature mostruose eppure latrici di una straordinaria e misteriosa armonia, si verificano avvenimenti apparentemente privi di senso, i personaggi sono risucchiati in spazi indefiniti e luoghi infiniti ed ogni cognizione spaziotemporale è definitivamente perduta.
Questa dimensione parallela, labirintica ed inquietante coincide inaspettatamente con la nostra realtà, come attestano le parole della misteriosa ragazza dell’ultimo racconto:

“Crede davvero che il mondo qui fuori non appartenga già al labirinto? L’esistenza di questa porta fa sì che non ci siano più un davanti e un dietro. Anche questo mondo non è altro che uno dei tanti mondi che lei ha sognato e sognerà ancora.”

Certamente Lo specchio nello specchio  non è un libro piacevole, è piuttosto una lettura faticosa e inquietante. Michael Ende ha abbandonato il regno di Fantàsia della sua  Storia Infinita e la città senza nome di Momo e dei Signori grigi per calarsi in una realtà surreale ed indecifrabile, ha scelto di affrontare una strada diversa e più matura rispetto a quella percorsa con i suoi romanzi più famosi e suggestivi; una strada difficile e tortuosa, un labirinto senza uscita…
Il singolare fascino di questo tipo di  scrittura così sinistro e inquietante non rende tuttavia  Lo specchio nello specchio un libro indimenticabile: alcuni  racconti rimangono impressi nella memoria come ritratti, non privi di suggestioni musicali, come la vicenda del giovane medico e del monstum  armonioso, o ancora quella dello sposo che deve raggiungere la sua sposa attraversando una stanza infinita, e la storia dell’uomo dagli occhi di pesce; tuttavia la trama di questo dedalo di parole rimane troppo esile rispetto delle maestose allegorie che Ende è riuscito a costruire nei suoi romanzi più famosi.

Un libro da ascoltare, con cui confrontarsi con pazienza, una lettura suggestiva e uno straordinario gruppo di affreschi, che tuttavia può anche  lasciare delusi, dipende tutto dal lettore: perché  è lui che ha scelto la via del labirinto, ma ogni lettore ne rifletterà un’immagine diversa, a seconda della sua sensibilità.

domenica 23 marzo 2014

Un classico ritrovato: Scorciatoie e raccontini di Umberto Saba

Pubblicate per la prima volta nel 1946, incluse nel volume mondadoriano che raccoglie tutte le prose di Umberto Saba curato da Arrigo Stara nel 2001, le  Scorciatoie e raccontini, brevi prose scorciate che coniugano il rigore logico dell’aforisma con la densità visionaria e coloristica della prosa narrativa, hanno da qualche anno conosiuto una seconda giovinezza: sono state infatti ripubblicate da Einaudi nell’aprile del 2011, in uno smilzo volumetto dalla copertina verde, in cui è possibile leggere (o rileggere, per chi già le  conoscesse) una delle più innovative opere del poeta triestino, autore del celebre  Canzoniere, che in questi suoi 165 brevi, e brevissimi, scritti aforistico-narrativi, cui fanno seguito 14 singolari storielle dal taglio lievemente più lungo, si rivela anche un grandissimo prosatore.
Nella sua Storia e cronistoria del Canzoniere  (1946) Saba, accennando allo scarso successo sortito da Scorciatoie e Raccontini,  dichiara che queste prose  hanno “le radici nell’Ottocento e la testa nel 2050”, e in una lettera alla figlia Linuccia, risalente al 30 Novembre 1945, sempre parlando di Scorciatoie, l’autore triestino si esprime in questi termini: “È più che un bel libro; è il libro del Novecento, come Candide fu il libro nel quale si assomma il Settecento. Pochi, assai pochi lo capiranno. Ma l’opera è vitale… come lo fu il tuo povero padre”.
Saba considerava quindi Scorciatoie e raccontini un’opera d’importanza capitale, del resto è vero che, sebbene questa raccolta affondi le sue radici nel diciannovesimo secolo, è effettivamente  proiettata verso il futuro, e verso un pubblico giovane, in grado di affrontare un tipo di narrativa innovativa, che non vuole solo essere letta, ma ha il fisiologico bisogno essere vissuta in ogni sua parola; proprio per questo motivo anche la grafia  di Scorciatoie e raccontini è connotata in una maniera che potremmo definire sentimentale, ed è portatrice di significati complessi e profondi.
Per comprendere la densità di  quest’opera si leggano la prima e la seconda  scorciatoia in cui l’autore riconosce la complessità grafica ed argomentativa delle sue brevi prose: 
 
1 GRAFIA DI SCORCIATOIE Sono piene di parentesi, di - fra lineette - di “fra virgolette”, di parole sottolineate nel manoscritto e che devono essere stampate in corsivo, di parole in maiuscolo, di “tre puntini”, di segni esclamativi e di domanda. Che il proto prima, e il lettore poi, mi perdonino. Non so più dire senza abbreviare; e non potevo abbreviare altrimenti.
 
2 SCORCIATOIE Sono – dice il Dizionario – vie più brevi per andare da un luogo ad un altro. Sono, a volte, difficili; veri sentieri per capre. Possono dare la nostalgia delle strade lunghe, piane, diritte, provinciali.
 
Scorciatoie e Raccontini, che Saba dice di aver scritto in collaborazione con Nietzsche e Freud (ma nel quale è possibile rintracciare anche degli echi leopardiani) non è solo un’opera in cui l’autore triestino mette in mostra tutte le sue conoscenze psicoanalitiche, in una sorta di utopistica progettazione di una nuova società; è in primo luogo una raccolta di prose scorciate e di favolette contemporanee e senza tempo, in cui Saba fornisce una propria interpretazione di fatti, personaggi ed opere letterarie osservando la società che lo circonda, ed esprimendo giudizi taglienti e dissonanti nei confronti di autori osannati dai suoi contemporanei come Francesco Petrarca, Stephan Mallarmè, Giovanni Pascoli o  Alberto Moravia.
Nelle sue pagine, che sono un dolceamaro frutto in cui si percepiscono “le lacrime ed il sangue” del poeta triestino scampato alle persecuzioni della guerra, Saba disegna inoltre un acuto ed impietoso ritratto dei totalitarismi e dei loro principali fautori, rivelandosi un fine esegeta ed un sensibile interprete della realtà in cui vive.
Le Scorciatoie ed i raccontini sono quindi dolci e dolorosi, infatti dietro a una similitudine o ad un’affermazione paradossale e bizzarra nascondono profondi coni d’ombra,  che possono anche turbare ed amareggiare un lettore sensibile, e rivelano la loro talvolta sconcertante attualità, nonostante siano state concepite da Saba in un definito periodo storico (Il fascismo ed il secondo dopoguerra).
Ma  Scorciatoie e raccontini sono soprattutto un immenso messaggio d’amore, che Saba affida con fiducia ai suoi lettori, perché crede fermamente che le generazioni del futuro potranno capirlo, e saranno disposte ad ascoltarlo.
Sarà vero? Noi pensiamo di sì; perché, sebbene la società contemporanea abbia sempre una gran fretta, e la fretta sia notoriamente una cattiva consigliera, nella lettura di Scorciatoie e Raccontini, come in qualsiasi altro tipo di azione, la nostra generazione è più curiosa e disinibita e potrebbe essere pronta ad affrontare le parole, leggere come farfalle e pesanti come macigni scritte da un anziano, eppur giovanissimo, Umberto Saba.


lunedì 10 marzo 2014

Ciao Harry! Riflessioni (sentimental-letterarie) al termine di un percorso di letture Potteriane (seconda parte)




2. Dalla saga alla trilogia

A ben vedere sono soprattutto gli ultimi tre episodi della Saga di Harry Potter a costruire un percorso omogeneo, in cui la storia fluisce con maggiori interconnessioni. Questo non vuol certamente dire che gli altri romanzi presentino delle pecche d’integrazione, semplicemente i toni che li caratterizzano sono diversi.
La Pietra Filosofale e La Camera dei segreti sono di fatto i romanzi del crepuscolo dell’infanzia di Harry, anche il confronto che instaura con il Signore Oscuro è indiretto (nel primo episodio) e mediato dai ricordi adolescenziali di quest’ultimo (nel secondo episodio).  Il prigioniero di Azkaban è già altra cosa rispetto ai primi due romanzi,  non solo per le scoperte compiute da Harry, ma soprattutto perché in questo episodio il suo contatto con il male si approfondisce e si complica dolorosamente per  esperienza e agnizione: la scoperta dei Dissennatori è certamente una svolta in tal senso, ma anche quella del ruolo di Crosta/Codaliscia sortisce la sua importanza per il seguito della vicenda.
Il calice di fuoco segna, come abbiamo già avuto modo di accennare, un punto di svolta molto importante in quanto rappresenta il romanzo della reincarnazione del male, ovvero del Signore Oscuro; dal punto di vista narrativo è questo l’episodio che attesta un cambiamento forte all’interno della saga, perché il male acquista delle sembianze e un volto definito benchè indefinibile, sebbene sia appunto con  L’Ordine della Fenice  che si definiscono i ruoli, si innestano collegamenti forti tra bene e male, che non sono solo connessioni oppositive: la vicenda è pronta a mostrare i suoi sviluppi conclusivi.
 Il segno che L’Ordine della Fenice, Il Principe Mezzosangue, e I Doni della Morte,  sono di fatto associabili in una sorta di trilogia della seconda adolescenza di Harry, ci è dato anche dai cambiamenti che si percepiscono nella figura di Severus Piton, personaggio controverso, all’interno della saga, che soprattutto nei primi tre romanzi è una figura diametralmente opposta a quella di James Potter, al quale, tuttavia, a detta di Silente e come si scoprirà nel diciottesimo capitolo del  Prigioniero di Azkaban, deve la vita. Non si intuiscono ancora i risvolti sentimentali che caratterizzeranno l’ultimo episodio della saga, ma già nell’Ordine della Fenice, la Rowling tratteggia un Piton adolescente, bizzarro, timido e infelice, e accenna appena al suo legame con Lily, la madre di Harry.
Il Principe Mezzosangue non è il romanzo di Piton, sebbene questo epiteto gli appartenga, e benché sia lui l’apparente trionfatore nel male della vicenda narrata.
Questo è di fatto il vero romanzo di Lord Voldemort, la cui vita viene passata al setaccio attraverso i ricordi conservati da Silente e riproposti ad Harry nel suo pensatoio. La sua famiglia, l’infanzia dolorosa, il fascino delle arti oscure, il suo bisogno di vincere la morte, sono raccontati in queste pagine che culminano nella ricerca degli Horcrux, oggetti (e soggetti) contenenti pezzi di un’anima fatta a brandelli, dilaniata da sette omicidi, e che l’hanno resa apparentemente immortale, oggettivandola e simbolizzandola di fatto in un piccolo insieme di sinistre morti viventi: Il diario di Tom Riddle, l’anello di famiglia dei Gaunt, il medaglione di Serpeverde, la coppa di Tassofrasso, il diadema di Corvonero, il serpente Nagini e lo stesso Harry sono degli Horcrux, sinistramente significativi anche a livello affettivo per Voldemort.
È nel Principe Mezzosangue che Harry apprende dalle parole di Silente della distruzione più o meno consapevole dei primi due (il diario di Riddle è stato distrutto già nel secondo episodio, e proprio Silente ha annullato i poteri dell’anello dei Gaunt, con conseguenze mortifere) e comincia insieme al Preside ormai agonizzante la ricerca ragionata degli altri, rimanendo tuttavia all’oscuro, fino alla fine che l’ultimo Horcrux da distruggere è lui stesso.

Il Principe Mezzosangue è quindi l’episodio della saga in cui il passato di Tom Riddle/Lord Voldemort, riemerge nella sua straziante e dolorosa verità, ma è anche il romanzo in cui si conclude la vita mortale di Albus Silente, aprendo tanti interrogativi sulla sua persona che saranno risolti solo ne  I doni della Morte.
L’episodio conclusivo della saga appartiene infatti a Silente, istituendo una sorta di opposizione binaria con il Principe Mezzosangue.
In esso gli interrogativi di Harry sul passato di questo grandissimo mago trovano man mano risposta, il ritratto che emerge è di fatto quello di un regista che ha mosso sapientemente le sue pedine per raggiungere un ineffabile quanto indispensabile bene superiore.  Un concetto difficile da interiorizzare per gli altri protagonisti della vicenda, al punto da farlo passare  per un mostro agli occhi del fedelissimo Piton, quando l’uomo scopre qual è il destino di Harry.
Di Silente rimarrà sempre l’impressione che non sia stato detto tutto, se Voldemort è la perfetta esplicitazione del male nato dal dolore della mancanza di una qualsiasi forma di amore e dall’abbandono, Albus è una figura perfetta nelle sue ombre, ha accarezzato il lato oscuro della magia nella sua adolescenziale amicizia innamorata con Gellert Grindelwald, si è comportato da egoista nei confronti dei suoi affetti familiari chiudendosi ai bisogni della sorella Ariana affidata alle cure del fratello Abelfort, e vivendo la sua avventura adolescenziale con quello che sarebbe diventato il suo primo grande nemico dopo essere stato il suo più grande amico, alla ricerca dei Doni della Morte.
Eppure, a ben vedere, proprio la disavventura della sorella Ariana, molestata e rovinata per sempre da tre ragazzi babbani mentre da bambina si cimentava in una innocente magia, e quella del padre di Silente, rinchiuso ad Azkaban dopo essersi vendicato per aver aggredito gli aggressori di sua figlia, rappresentano  il motore che attiva la ricerca di un bene superiore che non può passare per l’odio e per la vendetta, né tantomeno per il potere rappresentato dalla purezza del sangue o dai mitici Doni della Morte che permetterebbero al loro possessore di dominarla.
Harry comprende l’ineffabile necessità di questo bene e la scaraventa davanti ad Abelforth,  ancora turbato e arrabbiato per le scelte compiute dal fratello maggiore mentre rievoca la dolorosa fine di Ariana:

-Scoppiò una lite...io presi la mia bacchetta e lui la sua, e il migliore amico di mio fratello mi inflisse la maledizione Cruciatus...Albus cerco di fermarlo e ci ritrovammo tutti e tre a lottare, e i lampi e le esplosioni la facevano impazzire, non riusciva a sopportarlo...-
Il volto di Abelforth impallidì come se avesse subito una ferita mortale.
-...io non credo che volesse aiutarmi, ma non sapeva quello che faceva: non si chi di noi sia stato, potrebbe essere stato chiunque...e morì-.
La voce gli si spezzò sull’ultima parola e poi si lasciò cadere sulla sedia più  vicina [...]
-Naturalmente Grindelwald tagliò la corda. Aveva già collezionato una bella lista di malefatte nel suo paese e non voleva che anche Ariana fosse messa sul suo conto. E così Albus era libero. Libero dal fardello della sorella, libero  di diventare il più grande mago del...-
-Non è mai stato libero- lo interruppe Harry.
-Come?- Chiese Abelforth.
-Mai- ripetè Harry. “La notte che morì suo fratello aveva bevuto una pozione che lo fece uscire di senno, Urlava, supplicava qualcuno che non c’era.  -Non far del male a loro, ti prego...fai male a me, invece-. [...]
-Credeva di essere di nuovo con lei e Grindelwald, lo so- continuò Harry, ricordando il piagnucolio e le suppliche di Silente. ”- Vedeva Grindelwald che faceva del male a lei e ad Ariana...era una tortura per lui: se l’avesse visto allora, non direbbe che era libero-.
Abelforth sembrava smarrito nella contemplazione delle proprie mani nodose e coperte di vene. Dopo una lunga pausa domandò: - Come fai, Potter,  a essere sicuro che mio fratello non fosse più interessato al bene superiore che a te? come fai a essere sicuro di non essere superfluo, come la mia sorellina?-
Una scheggia di ghiaccio perforò il cuore di Harry.
-Non ci credo. Silente voleva bene a Harry- intervenne Hermione.
-Perchè non gli ha detto di nascondersi, allora?- Ribattè Abelforth. ” Perchè non gli ha detto: -Pensa a te stesso, è così che si sopravvive?-
-Perchè- rispose Harry, prima che potesse farlo Hermione, -a volte  bisogna pensare a qualcosa di più della propria salvezza!  a volte  bisogna  pensare al bene superiore! Questa è una guerra!-[1]

Nel suo ultimo colloquio disincarnato con Harry, che avviene in un non-luogo spirituale simile alla stazione della metropolitana di  King’s cross, Silente riconosce di essere stato un debole nella sua adolescenza e nell’età adulta, tuttavia ha lottato perché trionfassero la giustizia e quella forma di bene scevra da ogni egoismo, onnicomprensiva, affatto priva di spirito di sacrificio, una forma di bene figlia dell’amore inteso come greca agàpe. I Doni della Morte, e in particolare la Pietra della Risurrezione, estremi desiderata di un Silente che non ha mai superato pienamente le sue debolezze di uomo, ma è riuscito a dominarle nello stesso modo in cui ha dominato la Bacchetta di Sambuco, assurgono a simbolo di una battaglia conclusa nella vita vera e piena, consacrata all’amore e vinta dal giovane Harry:

- Lei ha provato a usare la Pietra della Resurrezione-.
Silente annuì.
Quando la trovai, dopo tutti quegli anni, sepolta nella dimora abbandonata dei Gaunt, il Dono che più avevo bramato - anche se in gioventù l’avevo desiderato per tutt’altre ragioni -persi la testa, Harry. Quasi dimenticai che era diventata un Horcrux, che l’anello certamente conteneva una maledizione.  Lo presi e me lo infilai e per un attimo immaginai che avrei visto Ariana, mia madre, mio padre, e che avrei detto loro quanto mi dispiaceva...
- Fui uno sciocco, Harry. Dopo tutti quegli anni, non avevo imparato nulla. Ero indegno di riunire i Doni della Morte, l’avevo dimostrato più e più volte, e questa era la conferma.-
- Perchè?- Chiese Harry. - Era naturale! Voleva rivederli. Che cosa ha sbagliato?-
- Forse un uomo su un milione potrebbe riunire i Doni, Harry. Io sono stato capace solo di possedere il più crudele, il meno straordinario. Sono stato in grado di possedere la Bacchetta e di non vantarmene e non usarla per uccidere. Mi è stato concesso di dominarla e usarla, perchè l’avevo presa non per mio tornaconto, ma per salvare altri da lei.
- Ma il Mantello l’ho preso solo per futile curiosirtà, e quindi non avrebbe mai potuto funzionare per me come per te che ne sei il legittimo proprietario. Avrei usato la Pietra per richiamare indietro coloro che sono in pace, invece che per consentire il saacrificio di me stesso, come hai fatto tu. Tu sei il degno possessore dei Doni-.
Silente battè sulla mano di Harry, che alzò lo sguardo sul vecchio e sorrise; non riuscì a trattenersi. Come faceva ad essere ancora arrabbiato con lui?
- Temo di aver sperato che la signorina Granger ti frenasse, Harry. Avevo paura che la tua testa calda avesse la meglio sul tuo buon cuore, che se tu avessi saputo tutto fin da subito su quegli oggetti tentatori  avresti potuto gettarti sui Doni come feci io, al momento sbagliato, per le ragioni sbagliate. Se dovevi metterci le mani sopra, volevo che li prendessi senza rischi. Tu sei il vero padrone della morte, perchè il vero padrone non cerca dei sfuggirle. Accetta di dover morire e comprende che vi sono cose assai peggiori nel modo dei vivi che morire-.[2]

La complessa vicenda biografica ed emotiva di Silente trova quindi il suo pieno compimento nel martirio di Harry che assurge a figura larvatamente cristologica, pronta al sacrificio per un bene superiore e vera dominatrice della Morte.
Ma anche il coraggioso martirio del professor Piton, che è vissuto e morto  nascondendo la parte migliore di sè e proteggendo Harry in nome dell'amore imperituro per sua madre Lily, è un'altra testimonianza dell'esistenza di quel bene superiore, la cui percezione permette di  oltrepassare anche la paura della morte.

I doni della morte, è senz’altro il romanzo più complesso dell’intera saga di Harry Potter,  anche per i suoi larvati riferimenti alla storia contemporanea: la plumbea atmosfera di guerra che si distende tra le pagine culmina nei chiari riferimenti alla  Shoah, soprattutto quando si fa cenno alla delibera del Ministero della magia, controllato da Voldemort, di tenere sotto controllo la popolazione magica fin dalla giovane età, alla ricerca di un’inaudita purezza del sangue magico.
 La figura del mago oscuro, nato Mezzosangue, si associa automaticamente  e geneticamente a quella di Hitler, persecutore degli ebrei che tuttavia aveva origini ebraiche, in un interessante connubio tra realtà storica e fantasia.
Abbiamo già avuto modo di accennare che Voldemort, cercando di interpretare la profezia sulla sua possibile sconfitta “ha scelto” di segnare come suo pari “il ragazzo che a suo parere aveva più probabilità di costituire un pericolo”: il mezzosangue Harry, preferendolo al purosangue Neville Longbottom; eppure, sarà proprio Neville ad annientare l’ultimo Horcrux, il serpente Nagini, annullando definitivamente  l’immortalità del Signore Oscuro e offrendolo ad Harry ormai privo di difese.
La profezia quindi si rivela sibillina, perché attribuisce ad entrambi i giovani un ruolo fondamentale per la definitiva distruzione di Voldemort.


 3. Una Conclusione  (?)

Concludere la lettura della saga di Harry e dei suoi amici produce una necessaria malinconia: è difficile lasciarli andare, lo è ancor di più quando si è continuamente bombardati dalla versione cinematografica delle loro avventure, e dalle peregrine dichiarazioni della Rowling, che probabilmente afflitta  dalla “sindrome di Torquato Tasso” ha  affermato che dovrebbe riscrivere il romanzo, facendo sposare Harry con Hermione, e distruggendo, a mio parere, il perfetto equilibrio di relazioni e sentimenti che è riuscita a edificare e che consente ad Harry,  Hermione e Ron di costruire un legame d’affetto più solido e articolato, all’interno della famiglia Weasley.
Tuttavia la rivelazione più interessante è stata senza dubbio quella in merito all’omosessualità di Silente, la quale  è tuttavia difficilmente percepibile nella sua relazione adolescenziale con Grindelwall.
Queste annotazioni al margine del mio innocente esercizio di scrittura testimoniano come neanche la Rowling sia in grado si lasciare andare la storia che ha costruito, certamente anche per un tornaconto personale quale quello di mantenere alto l’interesse dei giovani lettori intorno alla sua opera.
Ben venga una riscrittura dei romanzi, si chiariscano i rapporti fra i personaggi, ma rimanga chiaro che tutti questi tentativi sono altra cosa rispetto a quello che è la saga di Harry Potter quale è uscita dalla prima penna della Rowling; una saga che vive ormai di una vita propria e non può ricevere degli aggiustamenti o dei chiarimenti esterni, perché non le appartengono, come non appartengono più all’autrice le parole uscite dalle sue mani: Harry Potter appartiene ai lettori, che non possono fare a meno di riconoscere il fascino senza tempo di questa storia, consacrandola all’altare dei classici e sentendo una profonda malinconia dopo aver passato quasi un anno in sua compagnia (e quasi un decennio insieme ai suoi film).
Ciao Harry! Fortunatamente nulla mi vieta di ritornare a mettere il naso tra le pagine della tua avventura...
...Del resto la tua straordinaria vicenda è anche mia...




[1] J. K. Rowling,  Harry Potter e i Doni della Morte, Milano, Salani, 2013  pp.493-495
[2]Ibidem,  pp.623-624.