mercoledì 4 novembre 2020

Olismi prosimetrici contemporanei: Lauro e Amleto


 

Letture che non t’aspetti (non è vero)

Ci sono libri che non ti aspetti, ai quali ti accosti per curiosità, scommettendo che ci troverai la fregatura, l’inganno, la magagna.

Libri che non credi possibili, i cui autori ti sembrano improbabili, improponibili, perché non rispondono ai tuoi canoni letterari. 

In realtà, che l'opera prima di Lauro De Marinis Sono io Amleto, (Rizzoli, 2019) non fosse esattamente una fregatura, me l’aspettavo. È ormai dallo scorso festival di Sanremo che seguo distrattamente ma con una certa curiosità la carriera musicale del suo autore, noto ai più  come Achille Lauro, e mi sono resa conto, dal primo ascolto di Roll’s Royce, passando per 1969, e continuando con tutto ciò che è venuto dopo, che il lavoro di Lauro, è sostenuto da una precisa e meticolosa poetica, che può essere più o meno condivisibile, ma è chiaramente riconoscibile ed è soprattutto artisticamente affascinante e ricca di riferimenti metaforici ed  evocativi.

Chiaramente il grande amore di Lauro è la musica, ma al ragazzo piace giocare con le parole, si diverte ad evocarne il potere emozionale, ne percepisce la forza iconografico e la spinge al massimo. 

Sono io Amleto è un esperimento a parer mio abbastanza ambizioso, in cui si intrecciano letterature, arti figurative e musica. Ma soprattutto, a conti fatti, è un esperimento riuscito.

 

Biografia e mito personale, due facce della stessa medaglia

L'opera prima di Achille Lauro è stata concepita e costruita dal suo autore come un percorso in cui la musica salva. Il ragazzino che racconta la sua storia di graduale redenzione verso e attraverso l’arte conosce, per sua scelta, tante forme di degradazione senza mai esserne totalmente risucchiato. 

La chiave di lettura dell’esemplarità nel negativo è relativamente difficile da adottare ed accettare, per cui almeno nella sua prima parte la vicenda del giovane Lauro va letta e interpretata come un’esperienza che varca il limite, in cui sono messi in scena il coraggio o l’incoscienza di spingere al massimo le contraddizioni della propria adolescenza che contiene in se stessa i semi di una singolare maternità.

L’esperienza bordeline di Lauro è in fondo la sublimazione di tutte le trasgressioni adolescenziali, la loro esasperazione; per questo l’adulto medio probabilmente non l’approva, ma se si immerge nella lettura, facendosi guidare dalla forza espressiva di ogni singola espressione, riesce a comprenderla (comprehendo, alla latina, non significa solo capisco, stiamo attenti) nella sua complessità.

L’autobiografia romanzata è di fatto racconto metaforico di formazione che muove dalle tonalità sfaccettate e multicolori e dall’indistinto magma delle emozioni adolescenziali fino alla loro ricomposizione e redenzione per e con l’arte.



Forme multiformi

La forma di Sono io Amleto non è quella del romanzo classico, è piuttosto un cangiante  ibrido in cui poesia, prosa e scena teatrale si innestano tra loro, e si arricchiscono di immagini e di sfondi evocativi ed esplicativi. Dare quindi una definizione di genere è praticamente impossibile, perché in ogni singola pagina quest’opera sfugge alle categorizzazioni.

Se si aggiunge anche il continuo riferimento dell’autore alle proprie canzoni, e a come sono state concepite, è ancora più evidente lo scopo della scrittura di essere complemento e chiarimento delle intenzioni musicali dell’autore, in una sorta di costruzione ad incastri in cui la musica si giustifica e si racconta, e il racconto a sua volta diventa musica.

Anche dal punto di vista grafico ogni singola pagina costituisce un’esperienza visiva oltre che conoscitiva, in cui la scelta dei caratteri di scrittura, il loro colore, il modo si alternarsi, non è lasciato al caso, ma obbedisce alla volontà di costruire un’opera da leggere e da ammirare, in una sorta di istallazione artistica perpetua e domestica, barocca e postmoderna, musicale e cartacea.

 

Bello da vedere, complesso da leggere, indispensabile complemento alla comprensione di un universo artistico  e umano sui generis, Sono io Amleto, è un’opera complessa, onirica e fascinatrice, concepita da un’anima giovane e cosmopolita, nutrita di tante suggestioni e dotata di una sensibilità fresca e visionaria, che vuole lasciare un segno in un’epoca fatta di omologazione e banalizzazione. 

Lauro non racconta solo la sua vita, la interpreta, la traduce in arte per l’arte. 

Il suo  è un parto creativo immenso e leggero. 

Un indiscutibile capolavoro contemporaneo, da vivere come tutte le opere d’arte: senza pregiudizi.

giovedì 17 settembre 2020

La fiction è servita. Breve disamina de I LEONI DI SICILIA

 


I Leoni di Sicilia di Stefania Auci è stato, e continua ad essere, il caso letterario di questo ultimo anno. Pubblicato nel 2019 dalla Casa Editrice Nord ha conquistato tantissimi lettori con la sua scrittura rotonda e facile, che tratteggia con ferme e dense pennellate luoghi avvenimenti e personaggi. 

Questo è di fatto il primo capitolo della saga dei Florio, la famiglia di imprenditori che tra il XIX e i primi anni del XX secolo ha segnato la storia economica e culturale di Palermo e dell'intera Sicilia, e terminando la lettura si è assaliti dalla curiosità di sapere come si evolverà il romanzo familiare in cui il verghiano ideale dell’ostrica viene stravolto con spudorata sagacia prima dai capostipiti Paolo e Ignazio e poi dal loro figlio Vincenzo.

Le vicende scorrono piacevolmente davanti agli occhi dei lettori: chi conosce la città Palermo è avvantaggiato nella lettura perché riesce a vedere materialmente il teatro in cui le vicende dei Florio si consumano, e riconosce le loro impronte  raccontate nella scrittura. 

Ci invece non ha esperienza di questa città non potrà  non rimanere avvinto dai lacci letterari tesi dall'autrice che riporta in vita un mondo che non c'è  più  ma che ha lasciato tracce culturali e geografiche profonde e degne di essere raccontate.

I leoni di Sicilia è un prodotto letterario di un certo pregio per la sua immediatezza, per cui le parole diventano cose senza tuttavia appesantirsi di  sfumature lirico-evocative; il romanzo può  già  considerarsi  il canovaccio ( lo screenplay volendo fare l'esterofila) di una fiction per il modo in cui è tagliato e narrato, a livello strutturale infatti  le varie sezioni temporali/ puntate in cui è suddiviso riportano un titolo che richiama gli interessi dei Florio e le introduzioni  di carattere storico contestualizzano con puntualità le vicende; i proverbi che introducono ogni sezione, oltre a fornire un sapore folkloristico, la incastonano nella tradizione regionale attraverso l'uso del dialetto.  A livello narrativo la forza rappresentativa con cui sono raccontate le vicende permette ai lettori di recuperare sogni desideri  e caratteri dei personaggi, e di indagare  e osservare ogni singolo protagonista in una coralità di punti di vista che si alternano e si completano. Ogni personaggio è  infatti narrato dall'interno, in quelle che sono le sue risoluzioni, le debolezze, e nei movimenti della sua anima.

Di fatto l'intenzione del romanzo storico d'epoca si realizza in una scrittura “di consumo”, che racconta in un incalzante presente storico, ne favorisce l'immediatezza e permette di osservare con una certa immedesimazione i moti sentimentali e sensuali dei personaggi.

I leoni di Sicilia sono quindi un'esperienza di lettura visionaria e cinematografica che forse a qualche purista farà storcere il naso per una sua supposta e supponente scarsa profondità letteraria; tuttavia una costruzione narrativa di questo tipo ha l'indiscutibile pregio di avvicinare alla lettura anche i lettori occasionali che, dopo aver tentennato davanti alla voluminosità del " tomazzo" sono conquistati dalla sua scrittura dialogica pulita e scorrevole. Ben venga allora in caso letterario e aspettiamo anche la fiction, augurandoci che tra il teatro della scrittura e l’occhio televisivo sia il primo ad avere la meglio, sancendo il fascino indiscutibile di  questa saga familiare così come è stata interpretata  e raccontata attraverso la scrittura dalla sua autrice.


sabato 22 agosto 2020

TI RACCONTERÒ UNA FIABA Considerazioni intime e creative sulle Trecento fiabe, novelle e racconti siciliani raccolti da Giuseppe Pitré

 Ho conosciuto mia nonna materna intorno ai sette anni. Si chiamava Angelina. Era una signora che portava induriti sul suo viso i segni di una vita faticosa, in cui si era battuta a modo suo per la propria indipendenza di donna, maritata vecchia rispetto alla media della sua epoca (intorno ai 26 anni...) e rimasta sola per scelta con tre figlie piccole alla fine degli anni '40 del Novecento, dopo aver lasciato il marito con cui non andava più d'accordo, e che per sua "fortuna" era poi morto giovanissimo in un misterioso incidente in mare per cui non era più stato ritrovato neanche il suo cadavere...

Bella lo era indubbiamente stata, una di quelle bellezze eteree dagli occhi che variavano il loro colore adattandosi al cielo,  i capelli ricci che da biondi erano diventati bianchi, le mani lunghe e ormai ossute, il corpo prostrato dalla vecchiaia che mostrava nella sua asciuttezza una rigorosa postura. Angelina, secondo le mezze parole di mia madre,  è stata un genitore  sanguigno,  ha nutrito le sue bimbe a lungo con tutto il suo corpo e ha offerto di nascosto e gratuitamente il proprio latte anche a un  bimbo in difficoltà (mio nonno non voleva, non doveva togliere da mangiare alla sua ultima bambina), ma non ha esitato  a lasciare anche  nude le figlie bambine e quasi adolescenti a furia di picchiarle per ridurle all'obbedienza.

In tal senso, ripensando alla sua forza nutritiva, sostenuta dalla memoria di mia zia che ha preso il suo latte fino ai due anni e mezzo e ne ricorda ancora distintamente il sapore, devo a mia nonna Angelina anche questa eredità: se non fosse stato per questo ricordo di maternità che può sembrare ferino ma a mio avviso è  profondamente dolce e tenace, probabilmente mi sarei arresa alla prima difficoltà  nell'avvio dell'allattamento con i miei due figli, perché  mia madre non mi aveva mai allattato al seno, e quindi non poteva sostenermi con l'esperienza personale, ma solo tramite la memoria di quella di sua madre. (Angelina ci ha lasciato il 17 agosto del 2003, all'età di 89 anni; due giorni prima di morire, non riuscendo più a parlare, rimproverò a gesti sua figlia, mia madre, perchè era vestita troppo leggera).

Mia nonna  era una sarta, una "mastra" di quelle brave, che insegnavano a cucire alle allieve, che vedeva un vestito e lo realizzava in una notte; quando l'ho conosciuta le mani e gli occhi non l'accompagnavano più  come una volta, allora si era data al chiacchierino, e i suoi lavori mostravano una precisione tecnica  scientifica di cui era gelosissima e non si mostrava minimamente disposta a tramandare la sua arte alle mani delle figlie. 

Recuperare il tempo che, indipendentemente dalla sua volontà non aveva passato con me e il suo ruolo di nonna non è stato subito semplice per Angelina, tuttavia  voglio credere che la nostra sia  stata una riconquista piena, perché ci ha donato tanto in termini di affetto e di corrispondenza d'amorosi sensi.

Giocavamo a carte con nonna Angelina, e lei non mi lasciava vincere: era un'avversaria ostica e anche un po'  sbruffona, l'occhio le rideva a indovinare quali briscole stringevo col paravento delle mie mani e poi c'era  quel gioco che si chiamava " Ti vitti" ( "ti ho visto" in italiano...almeno credo) nel quale, dandomi l'illusione di essere quasi vincente, mi stracciava senza pietà.

Ma soprattutto, quando rimanevo qualche ora  da lei, mia nonna era una grandissima intrattenitrice: si immedesimava nei miei giochi di bambole, indaffarata tra una pappa a Baby Mia e una controllata di pannolino a Cicciobello, chiacchierava insieme a me col suo canarino giallo  e mi raccontava storie, tante bellissime storie.

Credo che nessuno mi abbia raccontato delle fiabe in modo così coinvolgente come faceva lei. Usando un dialetto asciutto, quasi colto sul quale io, che il dialetto non lo sapevo perché sua figlia, maestra, non lo aveva mai usato per comunicare con me, mi concentravo con una fervida curiosità  ermeneutica.

Ancora oggi mia madre mi racconta spesso che, pur avendo solo la terza elementare, mia nonna amava molto leggere, e conosceva alla perfezione le vicende di Orlando e dei paladini di Francia; era una passione, quella per i libri, che a quanto pare condivideva anche col padre delle sue figlie. 

Sicuramente era una voce narrante davvero notevole, che intrecciava sapientemente storie d'amore e di guerra, di fate e reginotte, di cavalieri e di re coraggiosi.

Se fossi stata un pizzico più grande probabilmente quelle storie, che mia nonna tirava fuori da un repertorio  meraviglioso della tradizione orale, le avrei appuntate, invece quello che mi rimane nella memoria sono frustuli di filastrocche e rime baciate e un'eccezionale impressione di pienezza narrativa.

Una storia mi era piaciuta più  di tutte, era molto articolata, c'erano  amori, inganni e c'era  una "pupa di zuccaro e meli". Mi sono portata dietro questa immagine della "pupa" che la protagonista sostotuisce a sé stessa e a cui viene tagliata la testa dal novello marito, per circa trent'anni. Non avevo alcun riferimento bibliografico, solo una magistrale interpretazione di una storia che non si appoggiava su alcun copione scritto. Poi un giorno, per caso mi sono divertita a scrivere  "pupa di zuccaro e meli" su Google e ho scoperto "La rasta di basilicó". Non ho la certezza che mia nonna mi abbia raccontato proprio la storia che ho avuto modo di rileggere on line, ma ho sicuramente  ritrovato gli intrecci, la musicalità e la "pupa". La mia curiosità si è  spinta più avanti, nutrita anche da qualche input accademico e ho scoperto in questo modo la raccolta di Giuseppe  Pitré Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, che raccoglie 301 testi narrativi che il medico ed etnologo siciliano ha raccolto dalla viva voce di diversi narratori popolari. Tuttavia i quattro volumi in dialetto con traduzione italiana a fronte sono  pressoché  introvabili, per cui, desiderando possedere questo eccezionale corpus narrativo e non soltanto consultarlo in biblioteca,  mi sono accontentata di acquistare un'edizione in italiano  intitolata Il pozzo delle meraviglie (2013, Roma, Donzelli editore) che, pur privandomi della sezione dialettale,  mi ha permesso di appropriarmi di un patrimonio fiabesco e narrativo impressionante (uno dei più  vasti d'Europa) del quale avevo avuto qualche sentore leggendo le "fiabe italiane" curate da Italo Calvino. 

Ho scelto di svolgere una lettura integrale e lenta dei racconti raccolti da Pitré, che mi permettesse di assaporare il più  possibile gli intrecci e di conoscere meglio i personaggi tipici della tradizione orale siciliana.  

Questo approccio mi ha rivelato tante piacevoli scoperte: figure narrative uniche e dense di carattere, intrecci complessi, musicali e mai banali e soprattutto mi ha fornito la percezione di quella che non definirei tanto una forma d'identità siciliana tradotta nella narrazione quanto piuttosto una sorta di specificità culturale che diventa unicità narrativa. Alcune novelle sono davvero dei capolavori novellistici in cui si giovani coraggiosi, reginotte, creature metaumane si muovono in uno sfondo caratterizzato da una coloritura densamente mediterranea.

La racconta di Pitré  è  strutturata come un catalogo,  per cui non è raro leggere diverse versioni della stessa storia o ritrovare la stessa sequenza narrativa in diverse storie. Tuttavia quella che può sembrare una debolezza ( e che lo sarebbe in un'opera con velleità strettamente letterarie) diventa un punto di forza a livello metanarrativo,  in quanto educa il lettore alla costruzione autonoma di nuove storie ispirate a quelle lette in un interminabile gioco d'invenzione. Degna di nota è  anche la sezione che comprende le "storie e fantasie di luoghi e di persone" perché interpreta luoghi cittadini e paesani con le voci della tradizione popolare colorando la storia di aneddoti e storielle fantastiche.

La lettura delle trecentouno novelle del pozzo meraviglioso è stata quindi un'esperienza creativa oltre che  profondamente intima,  ho riscoperto un repertorio fiabesco che era anche quello di mia nonna e l'ho riplasmato secondo le mie esigenze narrative  in un gioco creativo dalle molteplici prospettive. 

La "pupa di zuccaro e meli" e tutte le altre piccole e grandi storie tramandatemi dalla voce creativa e narrativa nonna Angelina sono diventate un'esperienza di lettura altrettanto  creativa  in cui passato personale e  tradizione (Regionale? Folkloristica? Orale?) si fondono in un abbraccio di vita e letteratura che rivolge uno sguardo a un indefinito futuro di memoria e invenzione.



P.S. Si potrebbe affermare, e in verità qualcuno lo ha anche fatto, che queste righe hanno ben poco di ermeneutico e sono sbilanciate sul punto di vista autobiografico. Il che è  vero ed indiscutibile, e devo ammettere che...l'ho fatto di proposito. Il corpus raccolto da Pitré  ha un valore immenso, e può  essere fruito da punti di vista differenti: quello che otterrà forse maggiori  arricchimenti è  il punto di vista etnologico e folkloristico perché  in queste storie si raccolgono e si interpretano credenze popolari, si osservano personaggi storici e cariche nobiliari secondo una prospettiva microstorica che indubbiamente permette di leggere e indagare la cultura regionale con occhi differenti. Mi hanno colpito in tal senso le figure dei vari re di Spagna (il legame storico  tra Spagna e Sicilia è del resto fortissimo e confermato nelle varie narrazioni) e dell'Imperatore Federico, che ho scoperto crudele e sanguinario, e anche la vicenda dei vespri Siciliani raccontata  in tre differenti versioni che riportano tutte un errore di pronuncia che fu fatale agli Angioini. 

Qualche nota arabeggiante rimane nelle ambientazioni, nelle atmosfere e soprattutto negli intrecci  sempre smaglianti, in cui troviamo pochissimi riferimenti  all'Italia del centro-nord, il perno delle azioni dei personaggi è infatti prevalentemente il Mediterraneo.

Ho ritrovato la figura del pasticcione siculo per eccellenza, Giufá, e quella del furbacchione Ferrazzano, e ho conosciuto con immensa ilarità  la storia dell"asino Brancaleone e una serie di favole che trovano la loro origine nelle antiche storie di Esopi e Fedro.

Indimenticabili ed interessantissimi dal punto di vista narratologico sono poi tutti quei fenomeni di resurrezione attraverso magici unguenti, o di trasformazione da animale a uomo e viceversa dei personaggi. E poi, quante donne forti, furbe e coraggiose è  possibile osservare tra le righe di queste storie, prima fra tutte Caterina la sapiente, protagonista di un'avvincente novella piena di colpi di scena e agnizioni.

I punti di vista dai quali si possono leggere e rileggere queste narrazioni sono davvero infiniti, ma certamente quello creativo, per un lettore che non vuole essere per forza uno storico, un antropologo o un cultore della lingua dialettale, e quello più affascinante. 

Leggere queste storie, la cui tradizione orale è stata registrata nella scrittura, permette appunto di coglierne  l'atto creativo nel riconoscimento delle costanti che le animano.  Chi, come Pitré e come me, ha avuto la fortuna di ascoltare delle storie dalle vive parole dei narratori, non può  non percepirne la potenza inventiva ed evocativa che in quanto tale è acquisibile e tramandabile all'infinito in una continua combinazione di elementi e può essere fissata solo in minima parte nella scrittura (continuo a pensare che non potrei trovare delle corrispondenze precise tra le storie raccontate da Angelina e quelle che ho letto, proprio perché, ogni narrazione orale è  unica).

Il mio non vuole essere un discorso formalista, anche se potrebbe a prima vista sembrarlo; non mi interessa smembrare queste storie per elencarne le costanti, voglio piuttosto trasmetterne il valore infinitamente creativo: leggere queste storie ci permetterà  di inventarne delle altre, tutte nostre, che magari non scriveremo mai ma questo esercizio di creazione permette alla fantasia umana di non morire. 

Le storie che mi raccontava (non mi leggeva) Angelina ne sono la più  evidente testimonianza e quelle che  mi diverto a inventare e raccontare (oralmente) ai miei figli sono senz'altro la più  utile ed intima conquista fatta al termine della lettura di questa straordinaria raccolta.


giovedì 30 luglio 2020

A volte ritornano: Letterina a Luigi Garlando per i 700 anni dalla morte (?) di Dante Alighieri

Palermo, luglio 2020

Gentilissimo Luigi Garlando,
Mi prendo la briga di scriverle questa missiva avendo appena terminato la lettura del suo libro Vai all'Inferno, Dante!  edito da Rizzoli.
Non so quante volte ho letto e riletto nelle mie classi Per questo mi chiamo Giovanni, per cui, quando una mia collega mi ha segnalato la sua nuova pubblicazione, e dopo averne letto una breve sinossi...sono andata immediatamente a comprarlo (pressoché  in contemporanea con la scopa a vapore insieme alla quale l'ho immortalato su Instagram).
 Ho iniziato a leggere questa storia con grandissima curiosità ...a dirla tutta...non mi ha preso
proprio subito...ovvero, col senno di poi, ho avuto qualche difficoltà di immedesimazione, ovvero, in quanto prof di lettere e sicula, mi sono immedesimata troppo nei personaggi "sbagliati".
Vasco, il protagonista, mi è stato subito terribilmente antipatico, per non parlare poi dell'iniziale difficoltà con la terminologia del Fortnite che mi ha non poco messa in crisi  (lo ammetto, sulla soglia dei 40 anni, ho scarse competenze pratiche con tutto ciò che è  videogame, sebbene conosca le principali console ed i games di tendenza). Ma, superate le prime fisiologiche e generazionali difficoltà, la lettura ha preso piacevolmente il volo.
Che emozione ritrovarmi davanti agli occhi Dante redivivo, tornato a Firenze dopo 700 anni e sentirlo parlare in terzine, osservare e vivere con la sua inconfondibile curiosità il mondo contemporaneo! Ha colto in pieno la vitalità e la voglia di sperimentare  del nostro Alighieri scollandolo dalle cristallizzazioni letterarie che gli stanno naturalmente strette e ci ha restituito l'uomo, il maestro sempre pronto ad apprendere, il concentrato di emozioni e di cultura che si mette in gioco e diventa amico e magister di un ragazzino abbrutito da un intimo dolore che gli divora il cuore, aiutandolo a  venir fuori dalla sua personalissima selva oscura.
Ammetto che il ritorno di Dante ha riportato alla mia memoria una recente commedia di Luca Miniero che mi ha fatto poco ridere e molto riflettere, in cui qualcun altro tornava inaspettatamente dall'oltretomba nella Roma del 2017, a far danni per amor della sua Italia... analogia  di opposte intenzioni che si traduce comunque in una riflessione straniata  sul mondo contemporaneo.
Quello di Dante e Vasco è un racconto di fantastica  verosimiglianza ( ancor più fantastico per una juventina) costruito con perizia certosina nei suoi trentaquattro canti ( il protagonista deve pur uscire  dal suo personale inferno e riveder le stelle, ultima parola del libro) in cui nessuna emozione è esagerata o ridondante, nessuna vicenda sfiora la stucchevolezza. Negli scenari fiorentini si intersecano storia e modernità, soggettive emozioni ed esperienze del protagonista e del suo maestro, che culminano in un finale di ricomposizione che lascia parecchie impressioni sospese nel lettore…
Sinceramente, mi sono posta davanti a questo libro con almeno tre punti di vista differenti: il primo è stato quello dei coetanei di Vasco: credo che per una minoranza ( quelle sono inevitabili e in classe ce n’è sempre una rappresentanza)  la terzina potrebbe essere scoraggiante ( i versi vanno di  moda, le rime pure, ma ci sono sempre dei ragazzi che appena vedono un endecasillabo si irrigidiscono ahimè…) ma, la poesia alla fine, conquista un po’ tutti, specialmente se declinata in quella che è la loro prorompente attualità, inoltre la storia è avvincente senza diventare mai melensa o eccessivamente triste, pur parlando di amore e di morte.
Il secondo punto di vista è stato quello della professoressa di lettere che ha a che fare con questi gentil fanciulli: la prof. Licordari è stata il mio mito personale, nonostante la sua sorte un po’ bislacca; non mi riconosco tantissimo in lei , se non per l’amore che abbiamo per quel monstrum che è la letteratura, e che alle scuole medie è anche un po’ un fantasma dai contorni sfaldati da tanti altri argomenti. Mi sono chiesta se farei leggere questo libro ai miei ragazzi e soprattutto a quale fascia d’età lo vedo più adatto, e penso che, sebbene una ventata di Alighieri sia presente nelle classi seconde delle medie, lo proporrei senza alcun dubbio ai ragazzi di terza, i coetanei di Vasco appunto, perché, sebbene Dante sia uno dei punti focali intorno ai quali si dipana la vicenda, trovo che il perno emozionale e quello esperienziale  che il sommo poeta sollecita attraverso i suoi versi calati nella modernità sia il vero fulcro del racconto e che sia più apprezzabile dai tredicenni-quattordicenni.
Il terzo punto di vista è stato quello della studiosa d’italianistica ( un pochino pop) che non mi abbandona mai dal mio primo esame di letteratura italiana all’università: mi è piaciuta molto l’idea di fornire Dante di un cuore contemporaneo, che riflette su se stesso e su quello che ha fatto a livello artistico e politico, lei gli ha fornito una seconda chance, anche se il nostro Durante aveva delle spigolosità difficili da ammorbidire e una cultura sterminata e molto prepotente che gli ha permesso di fare quel che che ha fatto con la lingua del volgo e agli altri dialetti della penisola italiana. Un genio innamorato della sua parlata intesa come strumento eternatore di comunicazione che, a parer mio ( e non solo mio...Purgatorio docet), se la tirava parecchio, perché sapeva bene che stava facendo qualcosa di straordinario ( coscienza metaletteraria acutissima).
Tuttavia ho voluto crederci: Per me Dante non è mai morto, perché vive nelle sue opere e comunica con noi con la potenza dei suoi versi, ma se  tornasse in vita in carne ed ossa, oggi in questo mondo così diverso dal suo, la sua intelligenza critica lo porterebbe a riflettere in maniera inclusiva proprio come se lo è immaginato lei, e a paragonarsi ai giovani apripista e non alle vecchie cariatidi.
La saluto ringraziandola di cuore per questo simpaticissimo e significativo romanzo. Terminandolo ho già sentito la mancanza di Vasco, Bice, Catena, Kamau, Vieri, Dante e degli altri personaggi ( finanche della Vampira) e quando la lettura di una storia genera un pizzico di nostalgia riflessiva, allora le impressioni e le emozioni  che ci ha dato ci accompagneranno  per tutta la vita.
Con simpatia
LettureCreative
(L. Magro)

venerdì 10 luglio 2020

La grammatica non è acqua: Femminili singolari di Vera Gheno


Per un qualsiasi docente di lettere, e in generale per chiunque ami la lingua italiana e sia disposto a riconoscerne la naturale vitalità, Femminili singolari di Vera Gheno, ( Effequ, 2019)  sarà una scoperta entusiasmante; un saggio da leggere per quello che davvero è e non solo per ciò che  rappresenta a prima vista.
In questo saggio pop, La sociolinguista, specializzata in comunicazione mediata tramite i computer (Social- linguista si definisce), affronta, mediando appunto tra linguistica e sociologia, il tema dei sostantivi femminili, e disegna un quadro mosso e complesso nella sua estrema semplicità: il meccanismo linguistico declina al femminile cariche istituzionali e lavori che fino a qualche tempo fa erano appannaggio degli uomini; le nuove costruzioni linguistiche, giustificate e giustificabili in quanto si innestano nel naturale processo creativo della lingua, che si muove nelle sue forme declinabili senza in realtà mai uscire dal seminato, fa storcere il naso a molti sedicenti puristi, i quali si appellano invece ad autorità linguistiche superiori per avallare le proprie opinioni.
Il naturale arricchimento linguistico trova quindi dei paletti che hanno origine sociologica: la supposta  cacofonia  di parole come “sindaca, ministra, avvocata, architetta, ingegnera” è ampiamente disquisita, e sono evidenziate dall’autrice le motivazioni delle resistenze che si nascondono dietro il rifiuto urlato a gran voce da molti uomini e donne di usare determinate terminologie. Tuttavia la femminilizzazione dei termini non deriva da alcun capriccio, quanto piuttosto da un necessario riconoscimento dell’esistenza di determinati ruoli declinati al femminile.
Descritto in questo modo…il saggio può sembrare…noioso e forse anche politicamente orientato…e invece no. Quella di Femminili singolari è una lettura divertentissima e stimolante, che muovendosi dalla teoria linguistica, con approfonditi riferimenti alla morfologia del nome e al lessico, si muove attenta e divertita  tra le testimonianze dei social e dei media, osserva come la lingua viva dibatta su se stessa in un continuo gioco metalinguistico che spesso perde la bussola: insomma si comporta con se stessa un po’ come se fosse una lingua morta, arroccandosi su posizioni a dir poco vetuste per ragioni che hanno  ben poco di linguistico.
La lingua viva è possesso delle persone che la usano come codice di comunicazione, questa si adatta naturalmente ai cambiamenti sociali, ma tale naturalità si scontra con la difficoltà nell’ accettare la femminilizzazione dei ruoli, difficoltà che mostrano di avere le stesse donne, e che riconosco talvolta anche in me: ecco che, nell’ottica del lifelong learning che dovrebbe interessare tutti, ma che deve necessariamente toccare in maniera più stringente la classe docente, e nello specifico, per questa tematica, i docenti di italiano, questo libro è utilissimo per scardinare alcuni pregiudizi linguistici, ma soprattutto per comprendere come questi non siano supportati  a livello teorico. La grammatica si muove nella giusta direzione: ciò non significa che le parole che vengono rideclinate per i ruoli al femminile suonino bene: l’eufonia non è un dato linguisticamente vincolante se c’è una correttezza  formale indiscutibile e se l’uso continuato le sancisce come lecite. E sicuramente importante che  i parlanti prendano coscienza di questa indubbia verità, e non stiano a urlare su social la loro indignazione declinando  ad esempio in maniera polemicamente scorretta parole indeclinabili in quanto ambigeneri ( pediatra che diventa pediatro maschio) e appellandosi all’insindacabilità del correttore di word che non riconosce nel loro valore di sostantivo femminile parole come architetta o muratrice.
Il femminismo è nelle parole, recita il sottotitolo di questo illuminante saggio che, arricchendomi e chiarendomi le idee sulla flessibilità di genere che la nostra lingua indubbiamente possiede (mentre, invece, che ci piaccia o no, non possiede il genere neutro) mi ha regalato anche la conoscenza di una nuova utilissima parola: “Minchiarimento”, espressione che traduce in lingua italiana il significato del termine mansplaining, e interpreta molto bene quelle forme di paternalismo maschile e maschilista che si esplicano attraverso l’imposizione del proprio punto di vista da parte dell’uomo che tende a sminuire quello della donna: chiaramente ne farò uso, anche se il riferimento ai genitali maschili può essere un po’ urtante nella sua espressività estrema.
Ma questo saggio mi ha permesso di riflettere sulla mobilità e vitalità dell’italiano dal punto di vista del genere femminile, inteso proprio come genere grammaticale che nella sua vitalità è genere sociale. A volte sono state riflessioni scomode, ma auguro a tutti i lettori di Femminili singolari di svolgere tutti delle dovute  scomode riflessioni, perché nell’autocritica costruttiva oltre che nella conoscenza di quelle che sono le regole grammaticali, le quali non hanno nulla di scientifico inteso come immodificabile, si può trovare la giusta chiave per parlare e scrivere in un italiano che sia corretto e consapevole.


lunedì 22 giugno 2020

PICCOLE GRANDI FOLGORAZIONI FUMETTISTICHE: BASTAVA CHIEDERE DI EMMA (Editori Laterza 2020)


Intorno al mese di gennaio mi sono imbattuta in un post facebookiano recante un fumetto (parte di una graphic novel volendo fare la poliglotta) che mi ha piacevolmente colpita: si trattava della prima storia del libro Bastava chiedere della blogger francese Emma, pubblicato a febbraio di quest’anno da Laterza.

La storia, raccontata con una leggerezza e una facilità disarmante mi ha piacevolmente colpita, infatti mi sono riproposta di acquistarlo appena lo avrei trovato in libreria; cosa che ho fatto praticamente subito…è stato l’ultimo libro che ho acquistato prima del lockdown. Dovendo concludere qualche altra lettura l’ho messo in attesa…ma fortunatamente le attese non sono così lunghe quindi…reduce da didattiche a distanza varie ed eventuali…mi sono finalmente concessa questa lettura femminista.

La modalità fumettistica permette una facile fruizione di questo testo che ho praticamente divorato; avrei visto l’introduzione di Michela Murgia più come una postfazione perché ha giusto un pochino anticipato qualche concetto di troppo, (ma lì la colpa è mia come lettrice…le introduzioni, se non sono dell’autore, è meglio leggerle alla fine) tuttavia la scrittrice è riuscita a costruire un’aspettativa molto equilibrata, anche se non indispensabile.

Il concetto chiave di “carico mentale” introduce e sottende queste dieci storie di femminismo quotidiano, ed è senza alcun dubbio una piccola rivelazione per quante, come me, non bazzichino più di tanto (e lo dico con la massima umiltà) il mondo delle femministe.
“Carico mentale” è appunto quella condizione nella quale si trova un po’ tutto il genere femminile che si vede sommerso da un lavoro accudimento, di organizzazione e gestione domestica invisibile, continuo e sfiancante; questo lavoro si aggiunge (o nel peggiore dei casi, ovvero molto spesso, si sostituisce) alle occupazioni remunerative , e se le donne vogliono conciliare pubblico e privato si vedranno spesso costrette a demandare ad altre donne alcune mansioni che vengono loro culturalmente affibbiate dal genere maschile.
Il fil rouge che si dipana in questo adattamento in lingua italiana si focalizza in particolar modo sul genere come ruolo socialmente determinato e difficile da modificare, sebbene non impossibile; il quadro che emerge è abbastanza tipico: se una donna mostra un atteggiamento aggressivo è socialmente criticabile (anche dalle altre donne),  le donne sono le custodi del lavoro riproduttivo e del carico emotivo a differenza degli uomini impegnati in quello produttivo; il sesso femminile non conosce bene se stesso e le sue possibilità, aldilà di quella tipica della maternità e dell’accudimento, in tal senso è veramente indicativa la sezione sul clitoride (ancora sconosciuto e tanto bistrattato e violato nella passata e contemporanea consapevolezza sessuale, in quanto utile “solo” al piacere femminile), ma soprattutto il corpo femminile continua ad essere oggetto di reificazione e mercificazione, agli occhi di entrambi i generi.

Con una facilità iconografica e linguistica davvero disarmante Emma accompagna  i lettori attraverso usi, costumi, e luoghi comuni che affliggono l’universo femminile e il modo di rapportarsi tra uomini e donne, lo fa citando il pensiero delle varie correnti femministe, indagando su dati statistici e chiaramente osservando le donne e il loro vissuto.
Facilità in questo specifico caso non è tuttavia sinonimo di semplicità. La simpatia delle immagini, la loro immediatezza e il perfetto amalgama iconico-testuale si traducono in un tessuto narrativo complesso e per certi versi difficile da accettare, perché  quello di Emma è un testo epifanico, e le epifanie non sono sempre positive, possono essere dolorose, produrre un turbamento, ma sono senza alcun dubbio utili per dare una scossa alle situazioni contingenti perché inducono alla riflessione.

Alcune verità ci infastidiranno...perchè le donne di cui l’autrice parla siamo proprio noi ( se ci mettiamo anche l’affinità generazionale...è fatta) ma l’intelligenza di questa graphic novel sta nel puntare sul ruolo fondamentale dell’educazione delle generazioni future  per cambiare le cose. Certo, dovremmo educarci ad educare, e quella è la parte più difficile: perchè i primi ad interiorizzare un clichè siamo noi, genitori  e maestri delle nuove generazioni. Se facciamo un pochino di autocritica ci accorgeremo di essere tutti “vittime” dell’ interpretazione dei generi,  e testi come quelli di Emma ci servono a lavorare  su noi e sugli altri prendendo consapevolezza di quello che effettivamente e socialmente siamo.

Bastava chiedere è un testo da leggere, rileggere e far leggere, e usandolo  anche nelle agenzie educative con le dovute “cautele didattiche”, espressione virgolettata perchè non intendo associarla ad una sorta di “bacchettonaggine” scolastica della quale sono comunque  conscia e consapevole.
Questa graphic novel  è senza dubbio un intreccio di parole ed immagini che mette in discussione le  specificità di genere socialmente  definite e avallate e proprio per questo dovrebbe essere condivisa da tutti senza troppi giri di parole, perchè vuole educarci a educare a una società più equa nelle sue differenze: si propone quindi un compito ambizioso con una leggerezza che lascia un segno profondo, e (ci si augura) indelebile e trasmissibile in quella che dovrebbe diventare una nuova normalità.

domenica 26 aprile 2020

RICOMPOSIZIONI BIOGRAFICO-LETTERARIE: L’AMICA GENIALE OVVERO IL POTERE DELLA NARRAZIONE CHE COSTRUISCE, RIEVOCA ED ETERNA



Approcciarsi e riflettere sull’epopea costruita da Elena Ferrante è quasi un obbligo per chi si professa lettore, considerato anche il suo successo ulteriormente sancito dalla riduzione in fiction dei romanzi de L’amica geniale.
Dal momento che l’edificio di carta è antecedente a quello di celluloide e lo ispira, non è possibile non curiosarci dentro per indagarne le interconnessioni narrative e osservarne il valore letterario.
Una prima inevitabile constatazione è che i quattro romanzi del racconto di formazione dell'Amica geniale mostrano un solido impianto narrativo, in cui le microstorie dei personaggi si saldano al doppio scenario storico e geografico modificandolo ed essendone a loro volta modificate.

Cominciamo dalla fine…

Il prologo dell’Amica geniale  è di fatto alba e tramonto di un bildungsroman che si apre e si dipana con una specifica necessità, quella di evocare un’assenza: l’amica di una vita della voce narrante è scomparsa, cancellando ogni minima traccia di sé.
La perdita si traduce quindi nella necessità impellente di raccontare, riportando in vita un flusso biologico che è stato trasformato e deformato dal tempo: amicizie, vite, storie, amori, dolori che si delineano su uno sfondo temporale di quasi settant’anni.
Il lettore si trova immerso in un poderoso flashback che tenta di definire e fissare, avvalendosi un complesso tessuto narrativo, il flusso di due vite che sono entrambe geniali nella loro unicità e specificità che è l’unicità e la specificità di ogni vita;  proprio per questo motivo è quasi inevitabile ritrovarsi avvinti  da questo imponente affresco.
Questa è la prima impressione che si ha cominciando a leggere L’amica geniale, una percezione che accompagnerà a lungo il lettore, almeno fino a che non arriverà al termine dell’ultimo  romanzo di questa epopea contemporanea in cui avverrà la ricomposizione di una cornice molto più complessa e stratificata…

Un’amicizia

L’ultimo romanzo scritto da Elena Greco si intitola  Un’amicizia. In esso la protagonista, nonchè voce narrante della saga de L’Amica geniale, racconta la sua pluriennale amicizia con la coetanea Raffaella/Lina Cerullo e istituisce una volontaria connessione metaletteraria tra il romanzo condiviso e consumato dal lettore e il racconto della propria esperienza di vita. Un’amicizia è quindi L’amica geniale e viceversa, le due storie hanno il medesimo scopo: rievocare, tirare fuori dal fiume del tempo e fissare sulla carta una vicenda per non permettere all’altra protagonista di annientarsi come lei vorrebbe. 
Il legame che si definisce nella Storia di Don Achille è speciale ed assoluto, sancito dall’esclusività del nomignolo che Elena/Lenù attribuisce all’amica Raffaellina: Lila. Per tutti Raffaella Cerullo sarà Lina, per Elena rimarrà sempre e soltanto Lila.
Le due bambine sono figlie di un rione della città di Napoli, nate all’inizio degli anni Quaranta. Lenù è bionda, rotondetta, graziosa, e presto miope, figlia primogenita di un usciere. Lila è una  brunetta sottile, figlia di un calzolaio. Frequentano la stessa classe delle elementari, condividono gli stessi luoghi di gioco e respirano le stesse esperienze, conoscono le medesime mitologie di quartiere trasmesse loro dalle voci degli adulti.
Il teatro che le vede sbocciare e scoprire giorno dopo giorno la vita è crudo, fatto di arcane violenze che si traducono in linguaggi e comportamenti che tutti i membri del rione sanno decifrare e declinare. La loro amicizia è di fatto un nucleo intorno al quale graviteranno tante vite che in un modo o nell’altro le influenzeranno e le segneranno più o meno profondamente. 
A ben vedere questa amicizia geniale non è tanto diversa dalle comuni amicizie che durano un’intera vita: due bambine si scelgono e nella loro diversità si completano, l’esemplarità del loro legame è data dalle scelte diametralmente opposte che sembrano compiere nei loro percorsi di vita, scelte che tuttavia, nel periodo storico e nei luoghi fisici e dell’anima in cui si dipanano, non sono così poco comuni, sono piuttosto figlie dei tempi e delle loro effettive possibilità familiari.
Le accomuna una non comune intelligenza, Elena potrà coltivarla seguendo i canali ortodossi della formazione scolastica, Lila sarà costretta a reprimerla e frustrarla perché non le sarà permesso di continuare gli studi oltre la quinta elementare, ma cercherà di riplasmarla e coltivarla in tutti i modi possibili.
Intorno alle due bambine, ragazze, donne c’è un mondo che cambia, e conosce tutti i vorticosi mutamenti del secondo dopoguerra: la ricostruzione, la contestazione, la corruzione della camorra, le ombre del terrorismo, la fine di una repubblica, l’inizio di un’altra, l’avvento dei computatori che diventano computer e pc.
Quella di Lila e Lenù è un’amicizia pluriennale che conosce alti e bassi, momenti di profonda empatia e simbiosi e momenti di lontananza e di silenzio, ma che comunque non si spezza per la volontà di entrambe le protagoniste di non perdersi, perché il loro legame si intreccia alle loro radici e da esse è nutrito.


Primi tempi, ovvero l’arte dell’immedesimazione 


Appena il lettore oltrepassa la soglia del prologo si ritrova immerso nella struttura analettica del romanzo e i primi tre tempi narrativi cominciano a scorrere sotto i suoi occhi in un avvincente turbinio di impressioni ed emozioni.
Sono i tempi dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza di Lila e di Lenù, ovvero i tempi in cui l’epica della vita mostra i suoi colori più suggestivi, resi più nitidi o sfaccettati dall’immaginario delle protagoniste.
Il lettore si immedesima con facilità nelle loro vicende, stabilendo una sorta di connessione empatica che è tuttavia anche abbastanza tipica: l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza di ognuno di noi sono di fatto i momenti in cui avvengono e si fissano fatti e ricordi che alimentano i mitologemi della vita di ognuno di noi. I sentimenti sono amplificati, le amicizie e gli amori posseggono il tono dell’esemplarità e  sono guidati da da un sentire a tutto tondo, che non conosce mezzi termini e mezze verità.
Se anche l’adolescenza di Lila la proietta nel mondo e nella logica degli adulti, dal momento che ad appena sedici anni è già sposata, in realtà la sua condizione è quella tipica di molte ragazze che vivono nello stesso sfondo storico: sposarsi a una così giovane età, negli anni 50 non era certamente un fenomeno così singolare. Certamente diversi elementi appartenenti alla vita adulta si innestano e modificano la sua spensieratezza adolescenziale, e infatti da questo punto di vista a sua “partecipazione” ai ritmi scolastici della liceale Lenù costituiscono quasi una compensazione rispetto ad una mancanza. Oltretutto la sua iniziale incapacità di rimanere incinta e la diagnosi del medico che le consiglierà di andare a prendere un po’ di sole per rinforzarsi e “maturarsi” la riporta biologicamente ad una dimensione nettamente pre-adulta.
L’estate passata ad Ischia dalle due ragazze, accompagnate dalla madre il Lila Nunzia e dalla cognata Pinuccia, è l’atto centrale di questa epica dell’adolescenza. La passione della giovane per Nino Sarratore, oggetto del desiderio della sua migliore amica Elena, le loro giornate in spiaggia, l’amore fedifrago e furtivo, totalizzante e irripetibile dei due giovani rappresenta il  vero momento di passaggio all’età adulta di tutti i personaggi che popolano la scena del romanzo. Quell’estate sarà spesso richiamata alla memoria da Elena che perderà anche la propria verginità proprio con il padre di Nino, in una delle sue ultime serate sull’isola e trasformerà questo episodio e tutto il suo contorno, nell'argomento del suo romanzo d’esordio.
La  Storia delle scarpe  e quella del Nuovo cognome sono anche le sezione dell’epopea di Lila e di Lenù in cui lo sfondo storico della ricostruzione italiana e del boom economico riplasma prepotentemente il teatro del rione e lo mostra come parte di una  maestosa realtà cittadina.
Napoli sboccia intorno al rione, comincia a mostrare la sua complessità, talvolta confusa  di città del sud. I commerci rifioriscono, l'imprenditorialità prende corpo anche nei più piccoli commerci. La delinquenza si insinua in modo surrettizio in questa crescita, la arricchisce  e ne rappresenta il lato oscuro e difficilmente estirpabile.
Non stupisce quindi che il ritmo di scrittura dei primi due volumi della saga sembri più godibile: la vicenda risponde infatti a una corrispondenza di sentimenti che ha il sapore dell’esemplarità, e sviluppa delle immagini narrative ed emotive che saranno indispensabili alla definizione del carattere delle protagoniste.

Tempo di mezzo, ovvero l’attenuarsi del tumultuoso fiume della vita

Storia di chi fugge e di chi resta  sancisce un inevitabile rallentamento del ritmo narrativo, lo scorrere tumultuoso dell’adolescenza cede il passo ad un ritmo in cui il colorito del linguaggio  si fa più sfumato: è l’inesorabile avvento dell’età adulta per le due protagoniste, sancito dalla loro età anagrafica e dal modo di interfacciarsi con la realtà che le circonda.
Elena lascia Napoli e si laurea in Lettere alla Normale di Pisa, scrive un romanzo e un racconto che sortiscono un discreto successo, si sposa, diventa madre e poi, ritrovando Nino Sarratore, l’amore idealizzato della sua vita, condiviso suo malgrado con Lila nell’estate di Ischia, sceglie di mandare all’aria il suo matrimonio per abbandonarsi alla passione.
 Lila, che è diventata madre di un bambino, ha lasciato il marito intraprendendo una unione di fatto  con l’amico d’infanzia Enzo Scanno; è andata a lavorare in fabbrica e ha cominciato a coltivare lo studio dei sistemi di calcolo che diventeranno la fonte dei suoi futuri guadagni. 
Nel loro susseguirsi gli avvenimenti non hanno più l’intensità esemplare e rappresentativa di quelli dell’infanzia e dell’adolescenza, ma si stratificano acquistando profondità.La scrittura si colora quindi delle sfumature della vita e si fa più lenta come più lento e ragionato è il ritmo biologico.
Rimane evidente come le vicende biografiche di Elena e Lina si completino andando a costruire un affresco a tutto tondo del loro tempo, Ciò che Lina non ha realizzato con la sua immensa e frustrata intelligenza è stato fatto da Elena, che per lei è appunto “l’amica geniale”, ma per realizzarsi e per uscire dal proprio guscio Lenù è diventata estranea al proprio rione, ha perso confidenza con il suo mondo di provenienza; del resto lei è fuggita da quella realtà in cerca promozione sociale.
Lina, che non ha mai voluto muoversi dalla sua Napoli,  ha conosciuto il lavoro di fabbrica e la condizione degli operai all’alba della contestazione, e ha cominciato a padroneggiare il linguaggio dei computatori, fino a diventarne esperta. Le due donne continuano a cercarsi, pensarsi e completarsi  in un continuo fluire di emozioni codificate nel flusso di pensiero e di scrittura di Elena.
Il ritmo dell’età adulta innerva anche Storia della bambina perduta. L’ultimo capitolo della saga racconta la fine del tempo di mezzo delle due donne, introdotta dal terremoto del novembre del 1980 e sancita dalla nascita pressochè contemporanea delle loro due figlie, dalla fine dell’amore illuso di Elena per Nino Sarratore che finalmente mostra la sua autentica natura di uomo che usa i propri appetiti sessuali per soddisfare le sue esigenze di arrampicatore sociale, e dalla tragica scomparsa della piccola Tina, la figlia di Lila. Chiaramente anche la perdita di sua madre costituisce per Elena un momento di importante passaggio, perchè sancisce la fine della sua condizione di figlia.
I colori delle vite di di Elena e Lina si intorbidano, irrimediabilmente intrisi dalla loro maturità di donne e di madri. Per quasi quindici anni vivranno praticamente di nuovo insieme, in due appartamenti posti uno sopra l’altro, e in questi quindici anni matureranno la coscienza che le loro strade sono destinate a dividersi. Così avverrà nel 1995, e da allora il loro diventerà un rapporto a distanza, la figura di Lila si affievolirà, continuando a soffrire, a coltivare la sua intelligenza attraverso l’uso del computer e le letture nella Biblioteca Nazionale di Napoli, a perseguire nella sua ritrovata solitudine il proprio scopo di dissolvimento.

Punti di vista

Il punto di vista della voce narrante coincide con quello di Elena/Lenù; è lei che racconta la vicenda e in questo gioco analettico sono quindi predominanti i suoi pensieri e preconcetti e la sua percezione di Lila come alterità disturbata e disturbante, personalità che innesca la sua competitività e la sua voglia di riscatto intellettuale e sociale. Il lettore non conosce i pensieri di Lina, ne osserva la storia, la vede agire e la percepisce con gli occhi di Elena, che le attribuisce comunque un’aura perturbata e perturbante in qualche modo avallata dai personaggi del rione.
Ma Elena è di fatto una scrittrice che sta fissando sulla carta una vita che ha segnato e plasmato la sua esistenza, in un continuo confronto e  scontro tra bios e logos, tra il violento e inesorabile fluire della vita reale e la sua rielaborazione e metaforizzazione nella scrittura.
La voce narrante domina la storia anche nella scelta del linguaggio, che nella riduzione cinematografica non può che essere quello dialettale della Napoli popolare e proletaria, ma nei romanzi è l’italiano perfettamente forgiato e sottomesso alla sua maniera di raccontare, il dialetto è solo raccontato, ridotto a qualche espressione chiave, ma non diventa linguaggio narrativo, per una chiara necessità letteraria che è quella del rispetto del punto di vista di chi racconta e crea.
Lila/Lina è una figura esemplare e geniale ma è a sua volta plasmata dalla scrittura dell’amica geniale che in lei vede la parte più istintiva e sanguigna di se stessa. Elena ha trasformato la vita della sua amica in letteratura, nella speranza di vedersi ripresa e arricchita dalla sua supposta vena narrativa.
Più volte nella narrazione Lina minaccia Elena che, se racconterà la loro storia, si intrufolerà nella sua scrittura per controllarla e modificarla se lo troverà necessario. Elena scrive che questo controllo non è di fatto avvenuto. Le pagine, come lei le ha ideate, non sono state modificate da nessun’altra mano. L’influenza di Lila è quindi tutta interiore, è la percezione che la narratrice ha di lei a plasmare il suo racconto.
L’alter ego dell’autrice costituisce la materia viva del suo racconto che, a differenza di tutti gli altri, essendo epopea di una vita e di tante vie ad essa intrecciate in un complesso ecosistema letterario e metaletterario, si ammanta della speranza di essere opera imperitura ed eternatrice.

Il sistema dei personaggi

Quello costruito da Elena Ferrante che racconta attraverso la voce di Elena Greco è un microcosmo di personaggi comuni ed esemplari, i primi tempi del racconto vedono agire sotto gli occhi delle protagoniste bambine le figure dei genitori e degli adulti che costituiscono la vecchia guardia del rione e della storia, ma intanto si delineano i loro  rapporti interpersonali che le seguiranno per tutta la vita. Ci sono la madre oppositiva e la maestra pigmalione, lo strozzino uomo nero e i suoi deboli antagonisti, il ferroviere poeta e la vedova pazza, e poi ci sono gli amichetti e i compagni di scuola, i figli, un po’ più grandi delle “personalità” del rione che mostrano già le inclinazioni dei loro genitori in un inevitabile ideale dell’ostrica che non li abbandona.
I tempi biologici di Elena e Lina corrispondono a quelli dei loro coetanei, che sbocciano e si definiscono insieme a loro. Realtà e finzione narrativa interagiscono e si intrecciano, in una sorta di continua interconnessione tra macrostoria e microstorie.
Con una chiara ed evidente sproporzione di genere, le ragazze e donne, ad esclusione di Elena e di Lina rimangono confinate nel loro ruolo di mogli, madri e amanti, non mostrando alcuna volontà di riscatto sociale, e adattandosi, talvolta loro malgrado, ad essere figure secondarie che si muovono all’interno della logica familiare.
I ragazzi e poi gli uomini acquisiscono invece un marchio sociale ben definito: Enzo il programmatore, Stefano l’imprenditore fallito, Rino il drogato, Antonio l’emigrato, Alfonso l’omosessuale, I Solara usurai e camorristi, Pasquale il terrorista - socialista, Nino Sarratore l’intellettualoide politico.
Ai personaggi del rione si devono aggiungere quelli che gravitano intorno ad Elena nel periodo universitario e nella sua vita di fuggitiva dalla realtà Napoletana: Franco Mari, il compagno di Elena ai tempi dell’Università, l’intera famiglia Airota, in cui spiccano la suocera Adele e il marito e padre delle sue due prime figlie Pietro.
Un’evoluzione nel sistema dei personaggi si compie proprio con la nascita delle figlie di Elena, in quanto, prima Dede ed Elsa, figlie di Pietro, e poi Imma, nata dalla sua relazione con Nino, costituiscono delle alterità da educare e da plasmare, ed Elena, racconta le proprie legittime difficoltà di madre e di donna in carriera che si interfaccia con loro.
Diversamente agiscono Gennarino e Tina nel fluire della vita di Lina: Il primo è il figlio di un’adolescente che diventa sempre più altro da sua madre, Tina è la figlia fortemente amata e perduta per una disgraziata distrazione, che segna sancisce la sua definitiva destabilizzazione di donna.

Ricomposizione (e restituzione)

Nell’epopea di Lila e Lenù stratificazione letteraria, biografica e metaletteraria si saldano studiatamente: l’autrice dei romanzi ha lo stesso nome e, secondo gli scarni dati della sua biografia, è concittadina della sua voce narrante, tuttavia quella di Elena Ferrante è un’identità fittizia che, agli occhi del lettore mostra dei punti di intersezione con il personaggio che ha costruito.
Quasi al termine della sua vicenda Lenù riflette sulla sua opera letterari: è istigata dai toni canzonatori con i quali le sue figlie, ormai adulte, rileggono alcune pagine dei suoi romanzi durante una riunione Natalizia di famiglia. In quell’occasione Elena si accorge della debolezza strutturale delle sue storie e dell’inconsistenza della sua immagine di scrittrice che di fatto non ha mai scritto nulla di memorabile,  e  viene presa dal timore che, proprio al crepuscolo delle loro vite, il genio di Lila emerga finalmente riversandosi in un’opera letteraria unica che le dimostrerà che non è mai stata capace davvero di scrivere.
Questa paura è tuttavia esorcizzata nella riscrittura della loro storia: le vicende narrate da Elena nei suoi romanzi probabilmente non saranno memorabili, pur essendo state fonte di guadagno per lei, ma la rievocazione della sua vicenda e di quella di Lila è chiaramente riscrittura di una vicenda memorabile. La negazione del valore di scrittrice di Elena Greco diventa affermazione del valore imperituro della sua storia di amicizia con Lila, fissato nella sua stessa narrazione.
La ricomposizione della vicenda avviene nel nome dell’infanzia e di Tina, figlia perduta di Lina e bambola perduta di Elena.
Di Lina non ci sono più tracce, suo figlio Rino si è rassegnato alla sua misteriosa sparizione.
Elena, tornando a Napoli qualche volta, ha potuto constatare che la sua amica ha davvero cancellato ogni traccia di sè. Intanto in una continua riflessione metaletteraria la voce narrante annuncia di aver terminato il suo romanzo e in una mattina come tante le vengono recapitate due bambole che hanno oltre mezzo secolo. Una è la bambola di Lila, l’altra è la sua Tina; la loro amicizia era iniziata proprio quando queste bambole sembravano irrimediabilmente perdute, gettate da Lila negli scantinati di un caseggiato del rione. Il loro ritrovamento è chiaramente un messaggio, che sancisce la perdita irrimediabile e volontaria di Lila come personaggio fisico, e la chiusura di un’amicizia intesa come comunicazione e interconnessione; tuttavia sottende anche un messaggio positivo: il cerchio narrativo si è ricomposto in nome di quell’amicizia, conclusa dal punto di vista comunicativo ma non perduta, in quanto è stata eternata  consapevolmente nelle parole dell’ Amica geniale.