martedì 20 luglio 2021

Un romanziere di fatto; breve indagine letteraria dell’opera narrativa di Gabriele Missaglia


1. Cominciamo dall'autore...

Se appartenete alla categoria dei booksgrammer o booklovers su Instagram o comunque fruite dei social network flaggando tra i vostri interessi quello della lettura, vi sarà  capitato di imbattervi nel profilo di Gabriele Missaglia, classe 1991, laureato in legge, autore di un romanzo Il diario, un destino già scritto (2017), e un racconto lungo Pietro e la piantagione (2019) editi entrambi da Amazon in formato cartaceo e digitale, e di un terzo romanzo ancora inedito, che promette tuttavia di confermare la sua vocazione per la scrittura.

Missaglia, noto anche con lo pseudonimo UN ROMANZIERE DI FATTO, è autore appassionato di lettura,  e si impegna molto nella promozione di sé  stesso e di quelle che sono le sue più grandi passioni, avvalendosi dei  principali canali social: Youtube[1], Facebook[2], Instagram[3] e Tik tok[4].

È soprattutto Instagram che gli permette di promuoversi a 360 gradi e che mostra ai suoi follower l'autore-lettore Gabriele che si fa personaggio, arguto e autoironico, e si mostra in reel colorati che ce lo raccontano attraverso godibili sketch.

Missaglia appartiene ad una specifica categoria: quella degli esordienti che si autoproducono e si pubblicizzano mettendoci letteralmente la faccia e giocano con se stessi con una grandissima serietà intellettuale.

Quello che lo distingue dagli altri autori è senza alcun dubbio l'autocoscienza  giocosa  (dalla quale emerge la giusta dose di narcisismo) che traspare nelle sue performance.

Detto ciò andiamo ad osservare come si traduce questa personalità nella scrittura romanzesca e quali sono le principali caratteristiche narrative che emergono nella scrittura di Un Romanziere di Fatto.

 

 

2. Vita È teatro, palcoscenici incrociati nel DIARIO

Iniziando a leggere Il diario, un destino già scritto, un lettore esperto percepisce un leggero senso di inadeguatezza, come se qualcosa non quadrasse: sarà  l'ambientazione inaspettata in una Londra più  simbolica che reale, sarà l'alternarsi di dialoghi e pensieri; ma Londra è  un palcoscenico tanto vasto quanto indefinitamente definito, e il gioco di alternanze mostra e nasconde ciò che questo romanzo vuole effettivamente essere: un autentico dramma a tre personaggi. In esso la trama si dipana a guisa di fotogrammi; il lettore la osserva in un continuo gioco di rimandi e sospesi che alimentano il plot narrativo che a sua volta si fa percorso metateatrale: un dramma infatti si racconta nel suo concepimento, lo osserviamo mentre è agito dai sui stessi personaggi: Lui, Lei, L'Altro.

E proprio L' Altro, Finn, l'uomo dai capelli rossi, possiede un fuoco demiurgico che  diventa furia distruttiva, dalle ceneri della quale nascerà  un capolavoro.
Archetipico è  il personaggio di Andrew,  il Lui  della narrazione, in quanto in esso è impossibile non ravvisare la figura dell'Inetto, l'uomo incapace di vivere[5], rieditata secondo i canoni del ventunesimo secolo.

Schiacciato dalla figura del padre assente, sembra un uomo di successo, ha una moglie bellissima con la quale tuttavia non è in grado di rapportarsi, e nel momento in cui è  attirato in una trappola demiurgica che sembra essergli stata tesa proprio dal genitore morto, emergono tutta la sua disorganizzazione mentale e la sua incapacità  di distinguere tra reale e fantastico.

Da questo punto di vista il personaggio della moglie Phoebe è anch'esso abbastanza caratteristico, sebbene poco caratterizzato: ne percepiamo la fisicità, che si focalizza sul suo sorriso luminoso. Essa si interseca  con una leggerezza quasi frivola, e a una mobilità anch'essa a tratti daimonica che mostra man mano tutta la sua innocente capacità distruttiva.

Defilate ma in realtà importantissime per la chiusura del cerchio narrativo, sono le due collaboratrici di Andrew, che, non solo porteranno avanti il suo lavoro, ma saranno anche letteralmente e metaforicamente spettatrici della sua tragedia.

Il diario è  quindi un interessante prodotto letterario che mette in moto diverse varianti in un impegnativo gioco ultranarrativo,  questo emerge già dalla prima lettura e si mostra nelle varie sovrapposizioni e iterazioni dei piani del racconto, costruite  con una buona perizia dal narratore onniscente.

Una vicenda che è  godibile già  attraverso una lettura ingenua ma che al lettore attento mostra i giochi metanarrativi dei quali è  nutrita che e ne rendono più  intensa e definita la comprensione.


2. Della Natura e di altri demoni: la storia di Pietro


Criticabile alquanto in Pietro e la piantagione è la presenza di una postfazione superflua: questo intenso racconto lungo[6] non ha bisogno di spiegazioni o di giustificazioni; parla da solo,  costruendo una potente allegoria narrativa.


Di fatto la postfazione, che ha tutt'al più il sapore di una captatio benivolentiae in cui l'autore cerca di spiegare in modo delicato e compito ai suoi lettori l'intento della sua creazione,  non aggiunge  alla vicenda nulla che già  non sia stato detto dai e nei suoi personaggi.

Pietro e la piantagione è una semplicissima storia che si costruisce sull'amore romantico e carnale, senza distinzione di genere.

È intessuta di riferimenti pseudoevangelici che si scoprono allegorici e metatemporali, a cominciare dall’iniziale ambientazione nella città terrena di Betsaida, capitale di un impero e luogo/non luogo dalla connotazione geografica multipla[7].

Da questa città,  afflitta da una peste che ne decima la popolazione[8]  il vecchio citarista Pietro parte  per accettare l'incarico di custode dei cancelli del Paradiso, affidatogli dal Grande G., il nazareno Gesù, figlio di un Dio accennato e assente nella sua onnipresenza.

Ma in questa allegoria postmoderna G. non è  misericordioso, è  piuttosto  la cinica reinterpretazione della Natura leopardiana che osserva il male degli uomini ed è ad essi indifferente, e persegue unicamente i suoi insensati e annoiati disegni.

L'illusione di misericordia che la stessa Natura da agli uomini sarà del resto personificata dalla figura del Diavolo, che nel racconto è il fratello sfortunato e gentile di Gesù, relegato da lui nel sottosuolo come Ade da Zeus.

Pietro deve di fatto compiere delle prove nell'aldilà per riuscire ad ottenere una cura che guarisca il suo amato Michele e tutto il mondo. Ma il suo viaggio  richiama quello archetipico per la letteratura italiana che è  stato compiuto da Dante nei tre regni dell'Oltretomba.

Pietro si muove infatti all'immobilità  lattiginosa  del Paradiso, passando per il Purgatorio fino a scendere all'Inferno in un'ideale Catabasi redentoria senza guide, ovvero guidato unicamente dai desideri del suo cuore.

Pietro e la piantagione è  quindi un racconto evocativo ed  equilibrato con un finale forse un po' frettoloso che ne chiarisce il titolo e  lo conclude  dandogli un gusto amaro e leggendario.

 

4. Una conclusione che non conclude

Le due opere edite di Gabriele Missaglia, pur partorite dalla stessa mano, sono  abbastanza diverse dal punto di vista argomentativo: metateatrale la prima, allegorica la seconda.

Le accomuna uno stile in via di definizione ma che mostra già una netta predilezione per un periodare piano, in cui il fraseggio non è  mai ipertrofico.

Un tipo di costruzione discorsiva e narrativa che si presta ad una lettura visuale e cinematografica, e pone davanti agli occhi dei lettori i capitoli come fossero scene.

Quella di Missaglia è forse una scrittura di nicchia, che senza  dubbio maturarerà ulteriormente dal punto di vista stilistico, ma è  già nutrita di una gande consapevolezza, è quindi degna di diventare un piccolo trend social letterario.



[5] "La vera fatica è vivere" sarà una sua battuta di sapore pavesiano

[6] Definizione che, non solo a parer mio, identifica in modo più corretto le narrazioni inferiori alle cento pagine.

[7] Betsaida, luogo di nascita di Simon Pietro, si trova vicino a Gerusalemme, che è  inoltre il luogo vicino al quale secondo la letteratura religiosa medioevale  si trovano le porte dell'Inferno, ma è  il nome di molti altri luoghi sparsi per il mondo.

[8] Un male che c'è, non trova giustificazioni ultraterrene o punitive da parte di un’entità superiore

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