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mercoledì 22 settembre 2021

Racconto è memoria che ritorna e non muore: l'estrema storia del Pane perduto di Edith Bruck


1.Intima

Mi sono approcciata alla lettura de Il pane perduto  di Edith Bruck (Milano, La nave di Teseo 2021) con la curiosità di chi non ne aveva sentito parlar bene[1]. Non mi spiegavo in che senso un’opera portatrice di una simile testimonianza, e che aveva fatto incetta di riconoscimenti, potesse essere stata scritta con poca attenzione; qualcosa non mi tornava.

Edith ha da poco compiuto 90 anni, è nata nella primavera del 1931, e una storia raccontata a questo punto della sua vita non può avere la morbidezza delle narrazioni romanzesche, ancor di più se questa storia, fatta di memoria senza orpelli e senza diaframmi, la riporta ad Aushwitz e le fa ripercorrere gli abissi della crudeltà umana vissuti sulla sua pelle di bambina-adolescente e la successiva dolorosa ricostruzione di una vita, umiliata, offesa e annientata che si è salvata per puro caso da un nero baratro di odio e ha trovato una strada per sopravviversi e viversi.

Questa estrema testimonianza è stata scritta “sulla soglia della fine dietro la porta”[2] e bisogna tenerne conto per comprenderne il significato più profondo.  Il pane perduto è l’estremo viaggio di una memoria che non è stata annientata da un orrore distruttore di tante vite anche a distanza di anni rispetto a quando si è consumato; allora bisogna coglierla con attenzione e gratitudine, senza facili generalizzazioni tematiche.

2. Narrazione e senso della narrazione

Una bambina corre scalza sulla polvere tiepida. La voce narrante la chiama Dickte. Osserva alcuni scampoli della sua infanzia ignara di ciò che la attende. Il primo capitolo del  Pane perduto  è raccontato quasi tutto in terza persona, col preciso scopo di far percepire al lettore la distanza della protagonista da questa sé ignara del poi, tuttalpiù vittima secondaria degli eventi che la fanno sentire diversa nella sua innocenza.

 La tredicesima primavera di Dickte segna il passaggio di narrazione alla prima persona, in un consapevole cambio di prospettiva: il momento della deportazione è quello in cui l’io riprende il suo spazio narrativo di protagonista che narra se stesso, separandosi dalla sua vita di bambina senza passato. Di bambina felice.

Quello che viene dopo, almeno nel capitolo che prende il titolo dal numero che è diventata Edith nei campi di sterminio nazista, è storia per certi versi conosciuta, testimoniata da tanti sopravvissuti con maggiori dettagli e dettagliata crudezza. In una manciata di pagine riprendono vita, colori, odori, dolori e inconsapevolezze della protagonista e della sorella che lottano per sopravvivere al vortice che le travolge e le massacra giorno dopo giorno.

Il profondo valore  di questa testimonianza sta proprio nel suo spostamento di prospettiva che proietta la protagonista nel dopo che si apre con la liberazione dai campi di sterminio.

Davanti agli occhi del lettore c’è un’anima che si era quasi annientata nell'orrore, e che è  gravida di parole e racconti. Ricostruirsi è difficile perché  Edith non ha più  punti di riferimento: non ha  una famiglia e non appartiene più  al paese in cui è  nata.

La sua dolorosa rinascita è vissuta attraverso i dialoghi asciutti e le descrizioni lapidarie di luoghi e personaggi; questi si modellano in un complesso nostos reale e di parole che non ha una meta prestabilita, e passando per la Terra promessa, la porterà nel suo paese d'adozione: l'Italia.

" Ecco", mi dicevo, "questo è  il mio Paese". La parola patria non l'ho mai pronunciata: in nome della patria gli uomini commettono ogni nefandezza. Io abolirei la parola patria, come tante altre parole: “mio”, “zitto”, “obbedisci”, “la legge è  uguale per tutti”, “nazionalismo”, “razzismo”, “guerra”, e quasi anche la parola “amore”, privata della sua sostanza.

Ci vorrebbero parole nuove anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia. La lingua di chi canta con la voce e le corde che piangono la ignoravo del tutto. La prima parola che ho imparato è  stata “ciao”. Me l'aveva detta una ragazzina che stava pulendo la mia stanza; “ciao” le avevo risposto e lei aveva sorriso della mia pronuncia della “o”.[3]

Il senso della narrazione,inteso come sensazione liberatoria riposta nelle parole di una lingua che viene scelta dall'autrice per sancire quasi la sua seconda nascita, si trova tutto in queste battute. Edith non potrà dimenticare, sente il dovere di raccontare e lo fa in un codice linguistico che diventerà faticosamente e amorevolmente suo.

3. Raccontare, fino alla fine.

Le parole sono le figlie di Edith, sono la sua cura per sopravvivere a ciò che ha subito.

Sono parole asciutte che mimano la realtà, la resuscitano nella sua crudezza che diventa spigolosità stilistica. Il pane perduto non è un'opera scolastica, è una storia che entra nel cuore del lettore attraverso il suo stile perturbante, in cui la narrazione è riflessione e viceversa.

Una narrazione asciutta e faticosa che reitera il ricordo e lo consegna ai lettori, esaudendo ancora una volta la necessità dell'autrice di fissare sulla carta il suo dolore e la sua rinascita.

Una scrittura universale e diversamente empatica che non si limita a raccontare, cerca piuttosto di "illuminare le coscienze" ponendosi fuori dalle aule scolastiche, e lo fa senza mezzi termini.

In questo è riposto l'autentico  e non convenzionale valore didattico del Pane perduto.

 



[1] Nonostante Il pane perduto sia stato incluso nella cinquina del premio strega, e sia stato indignito del premio Viareggio, non sono stati pochi i booksblogger che non lo hanno apprezzato per l’argomento troppo “abusato” e per uno stile di scrittura poco ortodosso.

[2]E. Bruck, Il pane perduto, Milano, La nave di Teseo 2021 p. 125

[3] Ivi p. 106-107

 

giovedì 30 luglio 2020

A volte ritornano: Letterina a Luigi Garlando per i 700 anni dalla morte (?) di Dante Alighieri

Palermo, luglio 2020

Gentilissimo Luigi Garlando,
Mi prendo la briga di scriverle questa missiva avendo appena terminato la lettura del suo libro Vai all'Inferno, Dante!  edito da Rizzoli.
Non so quante volte ho letto e riletto nelle mie classi Per questo mi chiamo Giovanni, per cui, quando una mia collega mi ha segnalato la sua nuova pubblicazione, e dopo averne letto una breve sinossi...sono andata immediatamente a comprarlo (pressoché  in contemporanea con la scopa a vapore insieme alla quale l'ho immortalato su Instagram).
 Ho iniziato a leggere questa storia con grandissima curiosità ...a dirla tutta...non mi ha preso
proprio subito...ovvero, col senno di poi, ho avuto qualche difficoltà di immedesimazione, ovvero, in quanto prof di lettere e sicula, mi sono immedesimata troppo nei personaggi "sbagliati".
Vasco, il protagonista, mi è stato subito terribilmente antipatico, per non parlare poi dell'iniziale difficoltà con la terminologia del Fortnite che mi ha non poco messa in crisi  (lo ammetto, sulla soglia dei 40 anni, ho scarse competenze pratiche con tutto ciò che è  videogame, sebbene conosca le principali console ed i games di tendenza). Ma, superate le prime fisiologiche e generazionali difficoltà, la lettura ha preso piacevolmente il volo.
Che emozione ritrovarmi davanti agli occhi Dante redivivo, tornato a Firenze dopo 700 anni e sentirlo parlare in terzine, osservare e vivere con la sua inconfondibile curiosità il mondo contemporaneo! Ha colto in pieno la vitalità e la voglia di sperimentare  del nostro Alighieri scollandolo dalle cristallizzazioni letterarie che gli stanno naturalmente strette e ci ha restituito l'uomo, il maestro sempre pronto ad apprendere, il concentrato di emozioni e di cultura che si mette in gioco e diventa amico e magister di un ragazzino abbrutito da un intimo dolore che gli divora il cuore, aiutandolo a  venir fuori dalla sua personalissima selva oscura.
Ammetto che il ritorno di Dante ha riportato alla mia memoria una recente commedia di Luca Miniero che mi ha fatto poco ridere e molto riflettere, in cui qualcun altro tornava inaspettatamente dall'oltretomba nella Roma del 2017, a far danni per amor della sua Italia... analogia  di opposte intenzioni che si traduce comunque in una riflessione straniata  sul mondo contemporaneo.
Quello di Dante e Vasco è un racconto di fantastica  verosimiglianza ( ancor più fantastico per una juventina) costruito con perizia certosina nei suoi trentaquattro canti ( il protagonista deve pur uscire  dal suo personale inferno e riveder le stelle, ultima parola del libro) in cui nessuna emozione è esagerata o ridondante, nessuna vicenda sfiora la stucchevolezza. Negli scenari fiorentini si intersecano storia e modernità, soggettive emozioni ed esperienze del protagonista e del suo maestro, che culminano in un finale di ricomposizione che lascia parecchie impressioni sospese nel lettore…
Sinceramente, mi sono posta davanti a questo libro con almeno tre punti di vista differenti: il primo è stato quello dei coetanei di Vasco: credo che per una minoranza ( quelle sono inevitabili e in classe ce n’è sempre una rappresentanza)  la terzina potrebbe essere scoraggiante ( i versi vanno di  moda, le rime pure, ma ci sono sempre dei ragazzi che appena vedono un endecasillabo si irrigidiscono ahimè…) ma, la poesia alla fine, conquista un po’ tutti, specialmente se declinata in quella che è la loro prorompente attualità, inoltre la storia è avvincente senza diventare mai melensa o eccessivamente triste, pur parlando di amore e di morte.
Il secondo punto di vista è stato quello della professoressa di lettere che ha a che fare con questi gentil fanciulli: la prof. Licordari è stata il mio mito personale, nonostante la sua sorte un po’ bislacca; non mi riconosco tantissimo in lei , se non per l’amore che abbiamo per quel monstrum che è la letteratura, e che alle scuole medie è anche un po’ un fantasma dai contorni sfaldati da tanti altri argomenti. Mi sono chiesta se farei leggere questo libro ai miei ragazzi e soprattutto a quale fascia d’età lo vedo più adatto, e penso che, sebbene una ventata di Alighieri sia presente nelle classi seconde delle medie, lo proporrei senza alcun dubbio ai ragazzi di terza, i coetanei di Vasco appunto, perché, sebbene Dante sia uno dei punti focali intorno ai quali si dipana la vicenda, trovo che il perno emozionale e quello esperienziale  che il sommo poeta sollecita attraverso i suoi versi calati nella modernità sia il vero fulcro del racconto e che sia più apprezzabile dai tredicenni-quattordicenni.
Il terzo punto di vista è stato quello della studiosa d’italianistica ( un pochino pop) che non mi abbandona mai dal mio primo esame di letteratura italiana all’università: mi è piaciuta molto l’idea di fornire Dante di un cuore contemporaneo, che riflette su se stesso e su quello che ha fatto a livello artistico e politico, lei gli ha fornito una seconda chance, anche se il nostro Durante aveva delle spigolosità difficili da ammorbidire e una cultura sterminata e molto prepotente che gli ha permesso di fare quel che che ha fatto con la lingua del volgo e agli altri dialetti della penisola italiana. Un genio innamorato della sua parlata intesa come strumento eternatore di comunicazione che, a parer mio ( e non solo mio...Purgatorio docet), se la tirava parecchio, perché sapeva bene che stava facendo qualcosa di straordinario ( coscienza metaletteraria acutissima).
Tuttavia ho voluto crederci: Per me Dante non è mai morto, perché vive nelle sue opere e comunica con noi con la potenza dei suoi versi, ma se  tornasse in vita in carne ed ossa, oggi in questo mondo così diverso dal suo, la sua intelligenza critica lo porterebbe a riflettere in maniera inclusiva proprio come se lo è immaginato lei, e a paragonarsi ai giovani apripista e non alle vecchie cariatidi.
La saluto ringraziandola di cuore per questo simpaticissimo e significativo romanzo. Terminandolo ho già sentito la mancanza di Vasco, Bice, Catena, Kamau, Vieri, Dante e degli altri personaggi ( finanche della Vampira) e quando la lettura di una storia genera un pizzico di nostalgia riflessiva, allora le impressioni e le emozioni  che ci ha dato ci accompagneranno  per tutta la vita.
Con simpatia
LettureCreative
(L. Magro)

venerdì 10 luglio 2020

La grammatica non è acqua: Femminili singolari di Vera Gheno


Per un qualsiasi docente di lettere, e in generale per chiunque ami la lingua italiana e sia disposto a riconoscerne la naturale vitalità, Femminili singolari di Vera Gheno, ( Effequ, 2019)  sarà una scoperta entusiasmante; un saggio da leggere per quello che davvero è e non solo per ciò che  rappresenta a prima vista.
In questo saggio pop, La sociolinguista, specializzata in comunicazione mediata tramite i computer (Social- linguista si definisce), affronta, mediando appunto tra linguistica e sociologia, il tema dei sostantivi femminili, e disegna un quadro mosso e complesso nella sua estrema semplicità: il meccanismo linguistico declina al femminile cariche istituzionali e lavori che fino a qualche tempo fa erano appannaggio degli uomini; le nuove costruzioni linguistiche, giustificate e giustificabili in quanto si innestano nel naturale processo creativo della lingua, che si muove nelle sue forme declinabili senza in realtà mai uscire dal seminato, fa storcere il naso a molti sedicenti puristi, i quali si appellano invece ad autorità linguistiche superiori per avallare le proprie opinioni.
Il naturale arricchimento linguistico trova quindi dei paletti che hanno origine sociologica: la supposta  cacofonia  di parole come “sindaca, ministra, avvocata, architetta, ingegnera” è ampiamente disquisita, e sono evidenziate dall’autrice le motivazioni delle resistenze che si nascondono dietro il rifiuto urlato a gran voce da molti uomini e donne di usare determinate terminologie. Tuttavia la femminilizzazione dei termini non deriva da alcun capriccio, quanto piuttosto da un necessario riconoscimento dell’esistenza di determinati ruoli declinati al femminile.
Descritto in questo modo…il saggio può sembrare…noioso e forse anche politicamente orientato…e invece no. Quella di Femminili singolari è una lettura divertentissima e stimolante, che muovendosi dalla teoria linguistica, con approfonditi riferimenti alla morfologia del nome e al lessico, si muove attenta e divertita  tra le testimonianze dei social e dei media, osserva come la lingua viva dibatta su se stessa in un continuo gioco metalinguistico che spesso perde la bussola: insomma si comporta con se stessa un po’ come se fosse una lingua morta, arroccandosi su posizioni a dir poco vetuste per ragioni che hanno  ben poco di linguistico.
La lingua viva è possesso delle persone che la usano come codice di comunicazione, questa si adatta naturalmente ai cambiamenti sociali, ma tale naturalità si scontra con la difficoltà nell’ accettare la femminilizzazione dei ruoli, difficoltà che mostrano di avere le stesse donne, e che riconosco talvolta anche in me: ecco che, nell’ottica del lifelong learning che dovrebbe interessare tutti, ma che deve necessariamente toccare in maniera più stringente la classe docente, e nello specifico, per questa tematica, i docenti di italiano, questo libro è utilissimo per scardinare alcuni pregiudizi linguistici, ma soprattutto per comprendere come questi non siano supportati  a livello teorico. La grammatica si muove nella giusta direzione: ciò non significa che le parole che vengono rideclinate per i ruoli al femminile suonino bene: l’eufonia non è un dato linguisticamente vincolante se c’è una correttezza  formale indiscutibile e se l’uso continuato le sancisce come lecite. E sicuramente importante che  i parlanti prendano coscienza di questa indubbia verità, e non stiano a urlare su social la loro indignazione declinando  ad esempio in maniera polemicamente scorretta parole indeclinabili in quanto ambigeneri ( pediatra che diventa pediatro maschio) e appellandosi all’insindacabilità del correttore di word che non riconosce nel loro valore di sostantivo femminile parole come architetta o muratrice.
Il femminismo è nelle parole, recita il sottotitolo di questo illuminante saggio che, arricchendomi e chiarendomi le idee sulla flessibilità di genere che la nostra lingua indubbiamente possiede (mentre, invece, che ci piaccia o no, non possiede il genere neutro) mi ha regalato anche la conoscenza di una nuova utilissima parola: “Minchiarimento”, espressione che traduce in lingua italiana il significato del termine mansplaining, e interpreta molto bene quelle forme di paternalismo maschile e maschilista che si esplicano attraverso l’imposizione del proprio punto di vista da parte dell’uomo che tende a sminuire quello della donna: chiaramente ne farò uso, anche se il riferimento ai genitali maschili può essere un po’ urtante nella sua espressività estrema.
Ma questo saggio mi ha permesso di riflettere sulla mobilità e vitalità dell’italiano dal punto di vista del genere femminile, inteso proprio come genere grammaticale che nella sua vitalità è genere sociale. A volte sono state riflessioni scomode, ma auguro a tutti i lettori di Femminili singolari di svolgere tutti delle dovute  scomode riflessioni, perché nell’autocritica costruttiva oltre che nella conoscenza di quelle che sono le regole grammaticali, le quali non hanno nulla di scientifico inteso come immodificabile, si può trovare la giusta chiave per parlare e scrivere in un italiano che sia corretto e consapevole.