1. Cominciamo
dall'autore...
Se appartenete alla categoria dei booksgrammer o booklovers su Instagram o comunque fruite dei social network flaggando tra i vostri interessi quello della lettura, vi sarà capitato di imbattervi nel profilo di Gabriele Missaglia, classe 1991, laureato in legge, autore di un romanzo Il diario, un destino già scritto (2017), e un racconto lungo Pietro e la piantagione (2019) editi entrambi da Amazon in formato cartaceo e digitale, e di un terzo romanzo ancora inedito, che promette tuttavia di confermare la sua vocazione per la scrittura.
Missaglia, noto anche
con lo pseudonimo UN ROMANZIERE DI FATTO, è autore appassionato di
lettura, e si impegna molto nella
promozione di sé stesso e di quelle che
sono le sue più grandi passioni, avvalendosi dei principali canali social: Youtube[1],
Facebook[2],
Instagram[3]
e Tik tok[4].
È soprattutto Instagram
che gli permette di promuoversi a 360 gradi e che mostra ai suoi follower l'autore-lettore Gabriele che
si fa personaggio, arguto e autoironico, e si mostra in reel colorati che ce lo raccontano attraverso godibili sketch.
Missaglia appartiene ad
una specifica categoria: quella degli esordienti che si autoproducono e si
pubblicizzano mettendoci letteralmente la faccia e giocano con se stessi con
una grandissima serietà intellettuale.
Quello che lo distingue
dagli altri autori è senza alcun dubbio l'autocoscienza giocosa
(dalla quale emerge la giusta dose di narcisismo) che traspare nelle sue
performance.
Detto ciò andiamo ad
osservare come si traduce questa personalità nella scrittura romanzesca e quali
sono le principali caratteristiche narrative che emergono nella scrittura di Un Romanziere di Fatto.
2. Vita È teatro,
palcoscenici incrociati nel DIARIO
Iniziando a leggere Il diario, un destino già scritto, un lettore esperto percepisce un leggero senso di inadeguatezza, come se qualcosa non quadrasse: sarà l'ambientazione inaspettata in una Londra più simbolica che reale, sarà l'alternarsi di dialoghi e pensieri; ma Londra è un palcoscenico tanto vasto quanto indefinitamente definito, e il gioco di alternanze mostra e nasconde ciò che questo romanzo vuole effettivamente essere: un autentico dramma a tre personaggi. In esso la trama si dipana a guisa di fotogrammi; il lettore la osserva in un continuo gioco di rimandi e sospesi che alimentano il plot narrativo che a sua volta si fa percorso metateatrale: un dramma infatti si racconta nel suo concepimento, lo osserviamo mentre è agito dai sui stessi personaggi: Lui, Lei, L'Altro.
Schiacciato dalla
figura del padre assente, sembra un uomo di successo, ha una moglie bellissima
con la quale tuttavia non è in grado di rapportarsi, e nel momento in cui
è attirato in una trappola demiurgica
che sembra essergli stata tesa proprio dal genitore morto, emergono tutta la
sua disorganizzazione mentale e la sua incapacità di distinguere tra reale e fantastico.
Da questo punto di
vista il personaggio della moglie Phoebe è anch'esso abbastanza caratteristico,
sebbene poco caratterizzato: ne percepiamo la fisicità, che si focalizza sul
suo sorriso luminoso. Essa si interseca
con una leggerezza quasi frivola, e a una mobilità anch'essa a tratti
daimonica che mostra man mano tutta la sua innocente capacità distruttiva.
Defilate ma in realtà
importantissime per la chiusura del cerchio narrativo, sono le due
collaboratrici di Andrew, che, non solo porteranno avanti il suo lavoro, ma
saranno anche letteralmente e metaforicamente spettatrici della sua tragedia.
Il diario è quindi un interessante prodotto letterario che
mette in moto diverse varianti in un impegnativo gioco ultranarrativo, questo emerge già dalla prima lettura e si
mostra nelle varie sovrapposizioni e iterazioni dei piani del racconto,
costruite con una buona perizia dal
narratore onniscente.
Una vicenda che è godibile già
attraverso una lettura ingenua ma che al lettore attento mostra i giochi
metanarrativi dei quali è nutrita che e
ne rendono più intensa e definita la
comprensione.
2. Della Natura e di altri demoni: la storia di Pietro

Di fatto la
postfazione, che ha tutt'al più il sapore di una captatio benivolentiae in cui l'autore cerca di spiegare in modo
delicato e compito ai suoi lettori l'intento della sua creazione, non aggiunge
alla vicenda nulla che già non
sia stato detto dai e nei suoi personaggi.
Pietro e la piantagione
è una semplicissima storia che si costruisce sull'amore romantico e carnale,
senza distinzione di genere.
È intessuta di
riferimenti pseudoevangelici che si scoprono allegorici e metatemporali, a
cominciare dall’iniziale ambientazione nella città terrena di Betsaida,
capitale di un impero e luogo/non luogo dalla connotazione geografica multipla[7].
Da questa città, afflitta da una peste che ne decima la
popolazione[8] il vecchio citarista Pietro parte per accettare l'incarico di custode dei
cancelli del Paradiso, affidatogli dal Grande G., il nazareno Gesù, figlio di
un Dio accennato e assente nella sua onnipresenza.
Ma in questa allegoria
postmoderna G. non è misericordioso,
è piuttosto la cinica reinterpretazione della Natura leopardiana
che osserva il male degli uomini ed è ad essi indifferente, e persegue
unicamente i suoi insensati e annoiati disegni.
L'illusione di
misericordia che la stessa Natura da agli uomini sarà del resto personificata
dalla figura del Diavolo, che nel racconto è il fratello sfortunato e gentile
di Gesù, relegato da lui nel sottosuolo come Ade da Zeus.
Pietro deve di fatto
compiere delle prove nell'aldilà per riuscire ad ottenere una cura che guarisca
il suo amato Michele e tutto il mondo. Ma il suo viaggio richiama quello archetipico per la
letteratura italiana che è stato
compiuto da Dante nei tre regni dell'Oltretomba.
Pietro si muove infatti
all'immobilità lattiginosa del Paradiso, passando per il Purgatorio fino
a scendere all'Inferno in un'ideale Catabasi redentoria senza guide, ovvero
guidato unicamente dai desideri del suo cuore.
Pietro e la piantagione è
quindi un racconto evocativo ed
equilibrato con un finale forse un po' frettoloso che ne chiarisce il
titolo e lo conclude dandogli un gusto amaro e leggendario.
4. Una conclusione che
non conclude
Le due opere edite di
Gabriele Missaglia, pur partorite dalla stessa mano, sono abbastanza diverse dal punto di vista
argomentativo: metateatrale la prima, allegorica la seconda.
Le accomuna uno stile
in via di definizione ma che mostra già una netta predilezione per un periodare
piano, in cui il fraseggio non è mai
ipertrofico.
Un tipo di costruzione
discorsiva e narrativa che si presta ad una lettura visuale e cinematografica,
e pone davanti agli occhi dei lettori i capitoli come fossero scene.
Quella di Missaglia è forse
una scrittura di nicchia, che senza dubbio maturarerà ulteriormente dal punto di vista
stilistico, ma è già nutrita di una
gande consapevolezza, è quindi degna di diventare un piccolo trend social
letterario.
[5] "La
vera fatica è vivere" sarà una sua battuta di sapore pavesiano
[6] Definizione
che, non solo a parer mio, identifica in modo più corretto le narrazioni
inferiori alle cento pagine.
[7] Betsaida,
luogo di nascita di Simon Pietro, si trova vicino a Gerusalemme, che è inoltre il luogo vicino al quale secondo la
letteratura religiosa medioevale si
trovano le porte dell'Inferno, ma è il
nome di molti altri luoghi sparsi per il mondo.
[8] Un
male che c'è, non trova giustificazioni ultraterrene o punitive da parte di
un’entità superiore
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