Si potrebbe scrivere molto banalmente che
vale la pena leggere la casa in collina di Cesare Pavese, perché
è un bel romanzo, non eccessivamente lungo, composto da ventitré brevi
capitoletti di agevole lettura, la cui fluidità si dipana con piacevole durezza
sotto gli occhi del lettore; indubbiamente quest’opera del 1948 rappresenta un piccolo grande capolavoro letterario degno di
essere esaminato e approfondito a livello accademico e scolastico; è quindi
un’opera sezionabile, analizzabile, criticabile a diversi livelli.
Il romanzo rappresenta una fonte storica
(in differita) nella quale si raccontano gli
anni cruciali (1943-1945) della Resistenza partigiana; teatro di questi avvenimenti sono le Langhe
piemontesi e la città di Torino, per cui il primo livello di lettura di
quest’opera è senza dubbio quello evenemenziale e miscrostorico (come si viveva
in uno stato di guerra, come questa veniva percepita dal popolo più o meno colto),
ma a ben vedere è subito chiaro che, se fosse solo questo aspetto del romanzo a
renderlo interessante, probabilmente ci limiteremmo a snocciolare delle
considerazioni squisitamente scolastiche sulle condizioni di vita dei civili
durante gli anni della seconda guerra mondiale a cavallo dell’armistizio dell’8
settembre 1943.
Il secondo livello lettura, più finemente
accademico e paradossalmente intimo, è quello che si concentra sul narratore, sui
suoi stati d’animo, e sul suo modo di porsi rispetto alla realtà che lo circonda.
Entriamo in uno scenario certamente più
sfaccettato, in cui si mettono in gioco aspetti letterari e biografici, alcuni
dei quali hanno il sapore del clichè, in quanto puntualmente riferibili
all’autore Cesare Pavese, sensibile traduttore di Melville e Joyce (solo per
citare due dei giganti della letteratura americana con i quali si confrontò) e
di opere greco-latine, scrittore febbrile e uomo fragile.
Il
fatto che Corrado, protagonista-narratore-spettatore del romanzo parli in prima
persona e sia originario del paesino di Belbo, mostra la chiara impronta
autobiografica di quest’opera. Immedesimarsi con il flusso di pensiero
dell’autore è spudoratamente semplice, ne percepiamo i turbamenti politici, ma
anche quelli spirituali dettati dalla sua incapacità di vivere da protagonista
la guerra come invece fanno i partigiani che gli ruotano intorno, e soprattutto
come fa Cate, la donna che una volta è stata sua, che è forse la madre di suo
figlio, e che è indubbiamente più forte di lui e pronta a battersi per la libertà.
Corrado invece preferisce fuggire,
nascondersi in nome di qualcosa che è anche umana codardia, ma che può essere
interpretato come un atteggiamento intellettualmente super partes nel quale l’autore- narratore si trova imprigionato e diventa incapace di
vivere le esperienze che gli si pongono davanti e ne diventa principalmente
spettatore.
Del resto è lo stesso Corrado che avalla
questo stato d’animo:
Con
la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla
giornata, non rimpiangere piú
le occasioni perdute.”
L'esperienza
del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di più. Rende sciocchi, e sono al
punto che esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi
soddisfa e non mi basta. A volte, dopo avere ascoltato l'inutile radio,
guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E
mi chiedo se sono davvero scampato.
Quella di Corrado è di fatto una forma di
ermetismo: chiuso nella turris eburnea della sua condizione di
intellettuale, il narratore osserva gli eventi dalla casa in collina, si
nasconde o fugge al minimo segnale di pericolo che può toccarlo in prima
persona, non esprime davanti agli altri attori della vicenda alcun giudizio schierato
e condiviso su quanto accade (sebbene la sua posizione sia evidente), solo la
carta è la sua confidente.
Corrado è uno spettatore, la sua
incapacità di azione lo connette inavvertitamente agli inetti protagonisti di
tanti romanzi della letteratura italiana ed europea, benchè la sua prigionia
nell’inazione, non sia una condizione unicamente “genetica” ma sia dettata anche dall’orrore di una guerra che a livello reale e simbolico è totalmente avversa alla sua indole di
studioso e di insegnante, e il confronto più o meno dialettico con caratteri
che mostrano di essere perfettamente calati nel loro ruolo di combattenti
partigiani fa sì che questa peculiarità si palesi ai suoi e ai nostri occhi ancora
più dolorosa e profonda.
Raccontare diventa una cura all’inazione
fisica e verbale; la sua ostilità alla guerra e alla condizione psicologica che
innesca in lui come uomo e come intellettuale si traduce in una scrittura bella
e amara, in cui individuale e universale si fondono e si confondono.
In tal senso la visione della morte di Corrado
assurge a sigillo di tutto il suo racconto e lo suggella:
Rimane da chiarire quale ragione può
spingere un avventurato lettore ad affrontare la lettura di questo breve romanzo
in cui storia, psicologia, mitologia e biografico intimismo si amalgamano nel textum
abilmente imbastito dalla penna di Cesare Pavese. Si può trovare una risposta
in una battuta squisitamente politica che ha in sé tuttavia ingerenze di altro
tipo:
-Non sei mica fascista?- mi disse.
Era
seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai. -Lo siamo tutti, cara Cate,-dissi
piano.-Se non lo fossimo, dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la
pelle. Chi lascia fare e s'accontenta, è già un fascista
La casa in collina
è un romanzo dalle molteplici prospettive nel quale il lettore può facilmente
immedesimarsi per empatia: le parole che Corrado dice a Cate sono in tal senso
emblematiche perché tratteggiano quello che è il sentimento di un senso comune
che non è politicamente orientato, è più che altro un modo di essere.
È più facile farsi trasportare dagli
eventi, non dare giudizi, osservare senza schierarsi apertamente, non
mettendosi in gioco, perché le conseguenze di questo comportamento appaiono
meno dolorose. Mostrare la propria personalità, partecipare agli eventi, esprimendo
i propri pareri in modo chiaro e netto, resistere armandosi davanti alle
prepotenze, è sempre pericoloso, e diventa ogni giorno più difficile e scomodo davanti
al potere dei media e delle reti con i vari influencer di turno.
La conclusione del romanzo conferma mostra
quanto sia forte questa attualità dell’inazione e dell’incoscienza umana, e
quanto ci costi:
Io
non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile,
so che tutti se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che ne
facciamo? perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso,
almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i
morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
L’uomo contemporaneo, e forse l’uomo in
ogni tempo, si trova in una condizione di guerra civile e perpetua, che nel nostro
secolo si svolge (soprattutto ma purtroppo non solo) senza armi, avvalendosi dei
mezzi di comunicazione di massa.
È una guerra che uccide le personalità e
ci massifica e uniforma, una condizione universale, che tuttavia trova delle
forme di resistenza; “i morti” rimasti uccisi (realmente o metaforicamente)i
nella lotta con le prepotenze del senso comune dominante, però rimangono sempre davanti ai nostri occhi ( e
alle nostre coscienze), ammonendoci contro l’inazione e l’omologazione.
Questa contemporanea “forzatura” di un
romanzo che racconta la resistenza di un uomo alla Resistenza, lo rende quindi
fruibile in modo differente e atrocemente attuale.
Una scrittura tersa, ricca di colori e
sfaccettature, una sintassi scorrevole e ricca di immagini, il racconto di una
sofferenza individuale che tuttavia esorta ad una più profonda autocoscienza universale,
fanno della Casa in collina, un classico nel senso più costruttivo e pedagogico
che si possa dare a questa categorizzazione.
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