domenica 1 settembre 2019

Sui classici: Leggere "La casa in collina" oggi


Si potrebbe scrivere molto banalmente che vale la pena leggere la casa in collina di Cesare Pavese, perché è un bel romanzo, non eccessivamente lungo, composto da ventitré brevi capitoletti di agevole lettura, la cui fluidità si dipana con piacevole durezza sotto gli occhi del lettore; indubbiamente quest’opera del 1948 rappresenta un  piccolo grande capolavoro letterario degno di essere esaminato e approfondito a livello accademico e scolastico; è quindi un’opera sezionabile, analizzabile, criticabile a diversi livelli.
Il romanzo rappresenta una fonte storica (in differita) nella quale si raccontano gli  anni cruciali (1943-1945) della Resistenza partigiana;  teatro di questi avvenimenti sono le Langhe piemontesi e la città di Torino, per cui il primo livello di lettura di quest’opera è senza dubbio quello evenemenziale e miscrostorico (come si viveva in uno stato di guerra, come questa veniva percepita dal popolo più o meno colto), ma a ben vedere è subito chiaro che, se fosse solo questo aspetto del romanzo a renderlo interessante, probabilmente ci limiteremmo a snocciolare delle considerazioni squisitamente scolastiche sulle condizioni di vita dei civili durante gli anni della seconda guerra mondiale a cavallo dell’armistizio dell’8 settembre 1943.
Il secondo livello lettura, più finemente accademico e paradossalmente intimo, è quello che si concentra sul narratore, sui suoi stati d’animo, e sul suo modo di porsi rispetto alla realtà che lo circonda.
Entriamo in uno scenario certamente più sfaccettato, in cui si mettono in gioco aspetti letterari e biografici, alcuni dei quali hanno il sapore del clichè, in quanto puntualmente riferibili all’autore Cesare Pavese, sensibile traduttore di Melville e Joyce (solo per citare due dei giganti della letteratura americana con i quali si confrontò) e di opere greco-latine, scrittore febbrile e uomo fragile.
 Il fatto che Corrado, protagonista-narratore-spettatore del romanzo parli in prima persona e sia originario del paesino di Belbo, mostra la chiara impronta autobiografica di quest’opera. Immedesimarsi con il flusso di pensiero dell’autore è spudoratamente semplice, ne percepiamo i turbamenti politici, ma anche quelli spirituali dettati dalla sua incapacità di vivere da protagonista la guerra come invece fanno i partigiani che gli ruotano intorno, e soprattutto come fa Cate, la donna che una volta è stata sua, che è forse la madre di suo figlio, e che è indubbiamente più forte di lui e pronta a battersi per la libertà.
Corrado invece preferisce fuggire, nascondersi in nome di qualcosa che è anche umana codardia, ma che può essere interpretato come un atteggiamento intellettualmente super partes  nel quale l’autore- narratore  si trova imprigionato e diventa incapace di vivere le esperienze che gli si pongono davanti e ne diventa principalmente spettatore.
Del resto è lo stesso Corrado che avalla questo stato d’animo:

Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere piú le occasioni perdute.”

L'esperienza del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di più. Rende sciocchi, e sono al punto che esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa e non mi basta. A volte, dopo avere ascoltato l'inutile radio, guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero scampato.

Quella di Corrado è di fatto una forma di ermetismo: chiuso nella turris eburnea della sua condizione di intellettuale, il narratore osserva gli eventi dalla casa in collina, si nasconde o fugge al minimo segnale di pericolo che può toccarlo in prima persona, non esprime davanti agli altri attori della vicenda alcun giudizio schierato e condiviso su quanto accade (sebbene la sua posizione sia evidente), solo la carta è la sua confidente.
Corrado è uno spettatore, la sua incapacità di azione lo connette inavvertitamente agli inetti protagonisti di tanti romanzi della letteratura italiana ed europea, benchè la sua prigionia nell’inazione, non sia una condizione unicamente “genetica” ma sia  dettata anche dall’orrore di una guerra che a  livello reale e simbolico  è totalmente avversa alla sua indole di studioso e di insegnante, e il confronto più o meno dialettico con caratteri che mostrano di essere perfettamente calati nel loro ruolo di combattenti partigiani fa sì che questa peculiarità si palesi ai suoi e ai nostri occhi ancora più dolorosa e profonda.
Raccontare diventa una cura all’inazione fisica e verbale; la sua ostilità alla guerra e alla condizione psicologica che innesca in lui come uomo e come intellettuale si traduce in una scrittura bella e amara, in cui individuale e universale si fondono e si confondono.
In tal senso la visione della morte di Corrado assurge a sigillo di tutto il suo racconto e lo suggella:


Rimane da chiarire quale ragione può spingere un avventurato lettore ad affrontare la lettura di questo breve romanzo in cui storia, psicologia, mitologia e biografico intimismo si amalgamano nel textum abilmente imbastito dalla penna di Cesare Pavese. Si può trovare una risposta in una battuta squisitamente politica che ha in sé tuttavia ingerenze di altro tipo:

 -Non sei mica fascista?- mi disse.
Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai. -Lo siamo tutti, cara Cate,-dissi piano.-Se non lo fossimo, dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s'accontenta, è già un fascista

La casa in collina è un romanzo dalle molteplici prospettive nel quale il lettore può facilmente immedesimarsi per empatia: le parole che Corrado dice a Cate sono in tal senso emblematiche perché tratteggiano quello che è il sentimento di un senso comune che non è politicamente orientato, è più che altro un modo di essere.
È più facile farsi trasportare dagli eventi, non dare giudizi, osservare senza schierarsi apertamente, non mettendosi in gioco, perché le conseguenze di questo comportamento appaiono meno dolorose. Mostrare la propria personalità, partecipare agli eventi, esprimendo i propri pareri in modo chiaro e netto, resistere armandosi davanti alle prepotenze, è sempre pericoloso, e diventa ogni giorno più difficile e scomodo davanti al potere dei media e delle reti con i vari influencer di turno.
La conclusione del romanzo conferma mostra quanto sia forte questa attualità dell’inazione e dell’incoscienza umana, e quanto ci costi:

Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che ne facciamo? perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

L’uomo contemporaneo, e forse l’uomo in ogni tempo, si trova in una condizione di guerra civile e perpetua, che nel nostro secolo si svolge (soprattutto ma purtroppo non solo) senza armi, avvalendosi dei mezzi di comunicazione di massa.
È una guerra che uccide le personalità e ci massifica e uniforma, una condizione universale, che tuttavia trova delle forme di resistenza; “i morti” rimasti uccisi (realmente o metaforicamente)i nella lotta con le prepotenze del senso comune dominante, però  rimangono sempre davanti ai nostri occhi ( e alle nostre coscienze), ammonendoci contro l’inazione e l’omologazione.
Questa contemporanea “forzatura” di un romanzo che racconta la resistenza di un uomo alla Resistenza, lo rende quindi fruibile in modo differente e atrocemente attuale.
Una scrittura tersa, ricca di colori e sfaccettature, una sintassi scorrevole e ricca di immagini, il racconto di una sofferenza individuale che tuttavia esorta ad una più profonda autocoscienza universale, fanno della Casa in collina, un classico nel senso più costruttivo e pedagogico che si possa dare a questa categorizzazione.




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