Ci sono romanzi
che acquistiamo per pura curiosità, specialmente quando fanno capolino con la
loro accattivante copertina rigida sugli scaffali della nostra libreria di
fiducia.
Poi cominciano a
leggerli, e magari ci attacchiamo letteralmente alla sedia per vedere come
vanno a finire, ma arrivati all’ultima pagina ci accorgiamo che qualcosa non
quadra…
Acciaio (Milano, Rizzoli 2010), opera prima
della giovane scrittrice biellese Silvia Avallone, è un romanzo che corrisponde
a questa identikit, è infatti un’opera di grande fruibilità che però si
disintegra in una bolla d’aria.
La Avallone ha uno
stile di scrittura gradevole e sa essere avvincente, la lettura infatti scorre
veloce senza intoppi, anche grazie ai numerosi dialoghi e monologhi che sono
parte fondante della struttura di questo corposo romanzo diviso in quattro
parti; tuttavia nonostante abbia dimostrato di essere capace di cimentarsi in
una tipologia scrittura relativamente accattivante, non è riuscita a costruire
una storia di spessore.
L’autrice racconta
le vicende di due bambine-adolescenti, le rappresenta nel loro micro-habitat,ovvero
i casermoni di Via Stalingrado a Piombino, immerso a sua volta nella più grande
realtà della classe operaia della tentacolare acciaieria "Lucchini"e
scosso dalla grande tragedia dell’11 settembre, tuttavia piccoli e grandi
avvenimenti non si incontrano, si sfiorano solamente sovrapponendosi fra loro.
Anna e Francesca,
le due giovani protagoniste, stanno per compiere 14 anni, e sembra quasi che la
loro vita debba essere decisa in questo delicato periodo di passaggio,è l’anno
che le porterà dalla terza media alla prima superiore. Sono due grandi amiche,
il loro rapporto è profondo e quasi simbiotico, ma imboccano due strade
differenti e un rapporto magico, e quasi primordiale nella sua intimità, si
sfalda irrimediabilmente: quello delle due ragazzine è un piccolo mondo scosso
da avvenimenti altrettanto piccoli, che tuttavia diventano, enormi per le loro
piccole anime, ferite a morte dalla fine di un’ amicizia così forte.
Francesca, è un’adolescente
algida, filiforme ed eterea, vittima di un padre morboso e di una madre
inaridita, ma indagare nei suoi pensieri e scoprire che non le piacciono i
ragazzi facendola diventare una ballerina di lap-dance a 14 anni non serve ad
altro se non a caricare pateticamente un personaggio che appare chiuso, sul
punto di sbocciare, ma non ancora perfettamente sbozzato, a differenza della
sua amica Anna, che è invece così definita nelle sue infantili decisioni come
nelle curve del suo corpo adolescenziale, deflorato dal bel Mattia, il poco
raccomandabile amico di suo fratello Alessio.
Adolescenti di
questo tipo esistono senza dubbio, ma Francesca ed Anna hanno qualcosa di eccessivo,
animalesco ed esasperato, sono troppo verisimili per essere anche credibili. Un
eccesso di verità si traduce in un ritratto falso, in cui non ci si immedesima,
si diventa piuttosto spettatori di scene morbosamente reali.
Ma sono
soprattutto le conclusioni di questa storia, che in realtà dovremmo definire
una non-storia, a lasciare l’amaro in bocca.
Acciaio,
in fin dei conti
non racconta nulla, tratteggia piuttosto uno spaccato di vita, segnato
dall’inevitabile separazione di due amiche che diventano grandi in maniera poco
(o troppo) ortodossa; per cui la Avallone, dopo essersi soffermata in maniera
quasi pedante su questo distacco, fa riavvicinare Anna e Francesca che si
ritrovano ormai quasi donne, e senza parole, dopo un anno di dolori ed esperienze
che le ha inevitabilmente mutate.
Il tempo non
ritorna e tutto quello che è successo non può essere cancellato; la Avallone ha
scelto la via meno problematica, e più scontata e pessimista, per concludere il
suo romanzo: Francesca vive ancora con dei genitori che sono assimilabili a due
spettri, e fa la ragazza immagine; la famiglia di Anna ha perso il suo unico
sostegno economico con la tragica morte di Alessio…
Qualcosa non
torna, troppi dubbi rimangono sospesi, in attesa di una risoluzione, non c’è
alcuna possibilità di redenzione, e l’autrice non lascia neanche intravedere
uno spazio in cui esprime un’effettiva condanna.
Acciaio è un libro scritto con
l’evidente scopo di diventare un film, è questa l’impressione che ci lascia. Quelli
che leggiamo non sono capitoli, sono già scene, di qualità relativamente
scarsa, ma che puntano su un forte impatto emotivo e potrebbero per questo
motivo attirare un vasto pubblico.
Gli ingredienti
per un bel melodrammone campione di incassi ci sono davvero tutti: un’amicizia
dai contorni lesbo, una ragazzina che si fa “sbattere” da un giovane aitante,
due tragedie familiari che si consumano contemporaneamente…ma tutto si chiude
troppo frettolosamente, come se si volessero nascondere delle ferite aperte e
sanguinanti con delle vistose ed inutili toppe.
Un bel prodotto
letterario, un prodotto appunto, che non riesce a sollevarsi da una fastidiosa,
commerciale, banalità.
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