1.Intima
Mi sono approcciata alla lettura de Il pane perduto di Edith
Bruck (Milano, La nave di Teseo 2021) con la curiosità di chi non ne aveva
sentito parlar bene[1]. Non
mi spiegavo in che senso un’opera portatrice di una simile testimonianza, e che
aveva fatto incetta di riconoscimenti, potesse essere stata scritta con poca
attenzione; qualcosa non mi tornava.
Edith ha da poco compiuto 90 anni, è nata nella primavera
del 1931, e una storia raccontata a questo punto della sua vita non può avere
la morbidezza delle narrazioni romanzesche, ancor di più se questa storia,
fatta di memoria senza orpelli e senza diaframmi, la riporta ad Aushwitz e le
fa ripercorrere gli abissi della crudeltà umana vissuti sulla sua pelle di
bambina-adolescente e la successiva dolorosa ricostruzione di una vita,
umiliata, offesa e annientata che si è salvata per puro caso da un nero baratro
di odio e ha trovato una strada per sopravviversi e viversi.
Questa estrema testimonianza è stata scritta “sulla soglia
della fine dietro la porta”[2] e
bisogna tenerne conto per comprenderne il significato più profondo. Il
pane perduto è l’estremo viaggio di una memoria che non è stata annientata
da un orrore distruttore di tante vite anche a distanza di anni rispetto a
quando si è consumato; allora bisogna coglierla con attenzione e gratitudine,
senza facili generalizzazioni tematiche.
2. Narrazione e senso della
narrazione
Una bambina corre scalza sulla polvere tiepida. La voce
narrante la chiama Dickte. Osserva alcuni scampoli della sua infanzia ignara di
ciò che la attende. Il primo capitolo del Pane perduto è raccontato quasi tutto in terza persona, col
preciso scopo di far percepire al lettore la distanza della protagonista da
questa sé ignara del poi, tuttalpiù vittima secondaria degli eventi che la
fanno sentire diversa nella sua innocenza.
La tredicesima
primavera di Dickte segna il passaggio di narrazione alla prima persona, in un
consapevole cambio di prospettiva: il momento della deportazione è quello in
cui l’io riprende il suo spazio narrativo di protagonista che narra se stesso,
separandosi dalla sua vita di bambina senza passato. Di bambina felice.
Quello che viene dopo, almeno nel capitolo che prende il
titolo dal numero che è diventata Edith nei campi di sterminio nazista, è
storia per certi versi conosciuta, testimoniata da tanti sopravvissuti con
maggiori dettagli e dettagliata crudezza. In una manciata di pagine riprendono
vita, colori, odori, dolori e inconsapevolezze della protagonista e della
sorella che lottano per sopravvivere al vortice che le travolge e le massacra
giorno dopo giorno.
Il profondo valore di
questa testimonianza sta proprio nel suo spostamento di prospettiva che
proietta la protagonista nel dopo che si apre con la liberazione dai campi di
sterminio.
Davanti agli occhi del lettore c’è un’anima che si era quasi
annientata nell'orrore, e che è gravida
di parole e racconti. Ricostruirsi è difficile perché Edith non ha più punti di riferimento: non ha una famiglia e non appartiene più al paese in cui è nata.
La sua dolorosa rinascita è vissuta attraverso i dialoghi
asciutti e le descrizioni lapidarie di luoghi e personaggi; questi si modellano
in un complesso nostos reale e di parole che non ha una meta prestabilita, e
passando per la Terra promessa, la porterà nel suo paese d'adozione: l'Italia.
" Ecco", mi dicevo, "questo è il mio Paese". La parola patria non l'ho
mai pronunciata: in nome della patria gli uomini commettono ogni nefandezza. Io
abolirei la parola patria, come tante altre parole: “mio”, “zitto”,
“obbedisci”, “la legge è uguale per
tutti”, “nazionalismo”, “razzismo”, “guerra”, e quasi anche la parola “amore”,
privata della sua sostanza.
Ci vorrebbero parole nuove anche per raccontare Auschwitz,
una lingua nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia. La lingua di
chi canta con la voce e le corde che piangono la ignoravo del tutto. La prima
parola che ho imparato è stata “ciao”.
Me l'aveva detta una ragazzina che stava pulendo la mia stanza; “ciao” le avevo
risposto e lei aveva sorriso della mia pronuncia della “o”.[3]
Il senso della narrazione,inteso come sensazione liberatoria
riposta nelle parole di una lingua che viene scelta dall'autrice per sancire
quasi la sua seconda nascita, si trova tutto in queste battute. Edith non potrà
dimenticare, sente il dovere di raccontare e lo fa in un codice linguistico che
diventerà faticosamente e amorevolmente suo.
3. Raccontare, fino alla fine.
Le parole sono le figlie di Edith, sono la sua cura per
sopravvivere a ciò che ha subito.
Sono parole asciutte che mimano la
realtà, la resuscitano nella sua crudezza che diventa spigolosità stilistica. Il
pane perduto non è un'opera scolastica, è una storia che entra nel cuore
del lettore attraverso il suo stile perturbante, in cui la narrazione è riflessione
e viceversa.
Una narrazione asciutta e faticosa che reitera il ricordo e
lo consegna ai lettori, esaudendo ancora una volta la necessità dell'autrice di
fissare sulla carta il suo dolore e la sua rinascita.
Una scrittura universale e diversamente empatica che non si
limita a raccontare, cerca piuttosto di "illuminare le coscienze"
ponendosi fuori dalle aule scolastiche, e lo fa senza mezzi termini.
In questo è riposto l'autentico e non convenzionale valore didattico del Pane perduto.
[1]
Nonostante Il pane perduto sia stato incluso nella cinquina del premio
strega, e sia stato indignito del premio Viareggio, non sono stati pochi i
booksblogger che non lo hanno apprezzato per l’argomento troppo “abusato” e per
uno stile di scrittura poco ortodosso.
[2]E. Bruck, Il pane perduto, Milano, La nave di
Teseo 2021 p. 125
[3] Ivi p. 106-107