Nel mio percorso di
studentessa, e soprattutto in quello più definito e strutturato di dottoranda
di ricerca in italianistica, mi sono ritrovata ad ascoltare (e necessariamente
a confrontarmi con) quella che si definisce la giovane generazione di studiosi
(quarantenni che vanno per i cinquanta, ma del resto io sono già una trentenne
e per il panorama della critica letteraria sono solo una principiante…) che si
occupa di letteratura italiana.
In particolare, durante il convegno ADI
tenutosi a Torino nel settembre 2011,
questo gruppo di “giovani” ha proposto uno spazio di discussione in merito al
significato della letteratura nella contemporaneità, e sul ruolo della critica
e dell’editoria.
In linea di massima ho
trovato diversi punti di coesione tra quello che è il mio pensiero (ermeneutico?)
e le problematiche che sono state (e continuano ad essere) sollevate dalle
nuove voci della critica letteraria e della piccola editoria italiana; tuttavia
continuo a pormi una domanda, ovvero, più che sollevare interrogativi, alimento
una riflessione che mi rode lo stomaco a
guisa di gastrite: come dobbiamo servirci di queste teorie e di discorsi
squisitamente descrittivi che, più che una nuova critica, producono una meta-critica, all’interno delle nostre
ricerche?
La domanda non mi sembra affatto peregrina (non stiamo qui a pettinar
bambole), perchè mi è sembrato di
percepire quali siano i rischi di queste problematizzazioni descrittive: si
sollevano interessanti polveroni sullo stato in cui si trovano letteratura e
critica letteraria e nello stesso tempo si continua ad operare in ambiti e
modalità di ricerca classici, standardizzati, accademicamente codificati: è una
sorta di andamento bifronte e schizofrenico, per cui la res publica litterarum, rimane lì, immobile e immodificata nelle sue
regole (volendo sintetizzare con una frase di forte impatto visivo potremmo
dire che chi urla “al lupo al lupo”, in mezzo alle fauci del lupo ci sta
benissimo, perché non è altro che un batterio della carie).
In tutto questo il
povero lettore si allontana sempre di più dal libro cartaceo, a meno che non
sia un grande best seller leggibile sotto un ombrellone, e non prova più alcun
brivido(ovvero ne prova davvero pochi) quando prova a leggere un cosiddetto
“classico”, se poi il suddetto “classico” è accompagnato da riflessioni,
interpretazioni, dibattiti e discussioni che si appellano a grandi,
grandissimi, e contorti ermeneuti, ecco che, il nostro bel “classico” rimane
imprigionato nei corridoi dei dipartimenti delle nostre (disumanizzate) facoltà
umanistiche.
Non voglio sconfessare
nessuno (non mi permetterei mai, non si deve distruggere, ma costruire, e poi i
giovani critici a cui faccio riferimento sono persone per cui nutro una grande
stima, che in certi casi sfiora l’amicizia) Tuttavia quelli che sono problemi
INDIVIDUATI e DESCRITTI non dovrebbero essere affrontati concretamente in modo
tale da fondere realmente le due dimensioni, quella accademica in cui la
cultura si è cristallizzata (e anche un pochino imbalsamata), e quella reale in
cui invece si è eccessivamente banalizzata oppure si dibatte in diatribe prive
di risposte, in modo tale da ottenere delle nuove formulazioni che siano
davvero attive?
Il punto allora non è
solamente dove siamo, ma anche come dobbiamo muoverci per costruire qualcosa di
nuovo nel panorama critico e letterario italiano (insomma si tratta di compiere
una sana mediazione tra teoria e pratica, non soltanto di prendere posizione). E
questo per noi stessi in quanto studiosi (io sono una che ci prova, quindi mi
butto nella mischia) e per i lettori, che hanno bisogno di nuovi stimoli e di
linee guida (li abbiamo un po’ abbandonati a se stessi, e invece il nostro
ruolo è anche, e forse soprattutto, quello di educatori, perché, quando
interpretiamo un testo stiamo dandogli la nostra voce, quindi cerchiamo anche
qualcuno che ci ascolti per consegnargli qualcosa, e non credo proprio che
questo qualcuno siano solo degli studiosi come noi, sarebbe una noia colossale,
ma se una voce non si sente o è
incomprensibile un testo rimane muto e comincia a morire).
Giungono a dare
manforte alla mia riflessione le parole
di una giovane dottoressa di ricerca in italianistica e insegnante in una
scuola secondaria di primo grado piemontese (insomma una come me, solo che io
sicula sono) allieva del professore Mario Pozzi: Valentina Martino, che,
rispondendo alle domande che mi ero posta mentre ascoltavo con (relativa)
attenzione (si sa che dopo quindici minuti i livelli attentivi si riducono
drasticamente, quindi prendere appunti, e porsi interrogativi, diventa una
soluzione molesta, ma utile, per trattenere il filo del discorso…) ha lasciato
traccia delle sue riflessioni nella mia agendina. A questo punto bisognerà
quindi stabilire quanto fossimo distratte entrambe… e quanto queste
considerazioni non siano solo delle
deliranti elucubrazioni post intellettualiste…
La Martino manifesta il
timore che se qualcuno accogliesse il mio invito a compiere il passo di sintesi
che io auspico, si correrebbe il rischio
di vedere i binari (divergenti?) della prospettiva descrittiva e della
pratica della ricerca ridotti ad
un’unica soluzione normativa e rigida, originata dal mondo accademico (e del
resto i giovani critici parlanti e problematizzanti non sono forse degli
accademici? )
Per cui la soluzione
che auspica, usando un buon senso che definisce da “campagnina”, è quella di
muoversi, facendo quel che si può, seguendo il metodo ( e i consigli ) dei
buoni maestri, i risultati, frutto di competenza maturata con il lavoro e non
di dissertazioni teoriche (un pochino asettiche e autolatriche aggiungerei io,
anche se fatte il piena buona fede) parleranno da sé, solo così costruzione di
strumenti teorici, applicazioni didattiche e costruzione del sapere appariranno
come tre vertici di un triangolo e non come tre linee parallele che non si
incontrano mai (il paragone geometrico è mio…)
In breve continuiamo a
confrontarci coi testi, e facciamo scorrere il nostro sangue nelle parole che
leggiamo-studiamo-interpretiamo, così loro continueranno risponderci, perché
non sono lettere mute, hanno bisogno della nostra carne e del nostro sangue per
(soprav-) vivere e per poter parlare a un pubblico (studioso-medium). Ben
vengano tutte le domande, ma senza diventare polemiche, talvolta falsamente
politicizzate, o esercizi di retorica contemporanea.
Tuttavia se lo
“sbrodolamento” di parole che si produce quando si fa teoria della critica e
della letteratura può contribuire a far sì che in giro si dica”la critica
letteraria è viva” “la letteratura ha ancora un senso nel non-senso” vorrà dire
che almeno qualcuno si accorgerà che ci sono ancora dei luoghi in cui si pensa,
a prescindere da come questo pensiero viene espresso.
E il pensiero può
sempre diventare azione.
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