Gabriele d'Annunzio: riscoprendo Il Piacere nella lettura
Confrontarsi con i propri padri, intellettuali o
biologici che siano, è sempre un'esperienza scomoda ma necessaria. Se il padre
in questione si chiama Gabriele d'Annunzio l'empasse
si fa più scoperta e fastidiosa, perché d'Annunzio è uno di quegli scrittori-auctores-artisti che pesano sempre e comunque sulla nostra
formazione scolastica e umana, e in modo nettamente negativo
o positivo.
Con lui non esistono mezze misure: affascina o infastidisce e,
nelle scuole come nelle accademie, la sua figura e la sua opera sono una sorta
di passaggio obbligato che introduce nel Novecento letterario italiano e che
proprio per questo non può essere evitato: è necessario attraversarlo come
hanno fatto, in modo differente eppure affine, Guido Gozzano[1] ed
Eugenio Montale[2],
e riconoscersi portatori della sua eredità nel bene e nel male, come scrittori
e come lettori.
Per cui, non ci si può esimere dall'affermare che d'Annunzio
è un autore scomodo, come lo sono tutti gli auctores-patres
di qualsiasi letteratura, ma rimane un padre. Nel Ricordo - racconto del 1946 di Umberto Saba intitolato Il
Bianco Immacolato Signore,
è
possibile osservarne un singolare ritratto genitoriale risalente proprio ai
primi del Novecento; attraverso
gli occhi del figlio Gabriellino e di Saba, l'autore è di fatto rappresentato
come un padre egocentrico e vanesio,
troppo occupato a fare il letterato e il maschio,
per poter essere anche un genitore. Per questo motivo adotta con il figlio un
atteggiamento molto all’avanguardia, allontanandolo da casa dopo avergli
fornito una sostanziosa, e notevolmente diseducativa, “paghetta”:
I suoi figli non provavano, ad abitare la casa
del padre, la stessa beatitudine, lo stesso senso di continua attesa che
provavo io. E fu tutto allegro che
Gabriellino mi annunciò che, per il giorno seguente, suo padre ci dava vacanza:
non voleva, per tutto quel giorno, averci fra i piedi. Doveva, come tutti i
giovedì, “ricevere una visita”. Mi mostrò anche cinquanta lire – somma enorme
per i tempi – che suo padre gli aveva date perché pranzassimo e cenassimo
fuori[…]. «Mio padre» commentò, con una punta d'ironia «è sempre magnifico».[3]
In
questo senso d'Annunzio conferma, anche nella dimensione privata, una certa mancanza di onestà letteraria, uno degli
atteggiamenti che, nel centotrentesimo anniversario della sua nascita, può
essergli (forse) ancora rimproverato.
Eppure, la sua scomoda paternità non è
così negativa e vanesia, seppur profondamente segnata da panismi, superomismi e
da un' esasperata virilità; la lettura di uno dei suoi più celebri romanzi Il Piacere, composto nel 1889, conferma i
meriti di questo controverso padre del simbolismo e della letteratura italiana
del Novecento.
Il
Piacere è un romanzo ambiguo, che chiunque abbia svolto un
percorso scolastico più o meno ortodosso[4] crede
di conoscere, ma che non tutti hanno scelto di leggere fino in fondo, a mente
fredda e con la curiosità di osservarne i meccanismi narrativi.
Il
Piacere è il romanzo dell'arte per l'arte e della sua opulenta
onnipotenza (falsa e fallace):
Il verso è tutto. Nella imitazione della
Natura nessuno istrumento d'arte è più vivo, agile, acuto, vario, multiforme,
plastico, obediente, sensibile, fedele.
Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d'un fluido, più
vibrante di una corda, più luminoso d'una gemma, più fragrante d'un fiore, più
tagliente d'una spada, più flessibile d'un virgulto, più carezzevole d'un murmure, più terribile d'un
tuono, il verso è tutto e può tutto. Può
rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può
definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e
penetrare l’abisso; può avere dimensioni d'eternità; può rappresentare il
sopraumano, il soprannaturale, l’oltremirabile; può inebriare come vino, rapire
come un’estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro intelletto, il
nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l'Assoluto.[5]
In queste parole è in buona parte racchiusa
l'essenza del romanzo, esse esprimono infatti il modo di pensare e di vivere
del giovane Andrea Sperelli e sono alla base della sua formazione di uomo;
tuttavia il significato profondo di un testo così complesso non è certamente espresso
da questo breve passo, che riprende e traduce la massima
"fondamentale" data a Sperelli da suo padre: " Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte",[6] e
che rilegge l' Isotteo dello stesso d'Annunzio
facendolo diventare flusso di pensiero.
Questo è invece un elemento di riflessione non
trascurabile: Andrea rielabora non tanto il pensiero di d'Annunzio quanto
piuttosto le sue opere, insieme a quelle di altri scrittori e artisti,
attraverso il meccanismo della citazione e diventandone l'interprete, in un complicato
gioco metaletterario.
Andrea Sperelli non è quindi soltanto un prototipo
del Dandy, superficiale e inetto, che
sconterà amaramente la sua provocatoria fatuità alimentata dal desiderio; è
innanzitutto un giovane uomo, nobile e benestante, che vive e ama nella belle epoque romana, facendosi interprete sofisticato dei
suoi codici di comportamento, a discapito dell'autenticità dei propri
sentimenti.
Andrea ha amato sinceramente e perdutamente Elena Muti che ha conosciuto quando questa è
rimasta vedova del suo primo marito; e la scrupolosità con cui d'Annunzio gli
fa rievocare i momenti salienti della loro storia ne è la prova più stringente:
i ricordi sono vividi e densi di eros che si trasfonde negli oggetti di Palazzo
Zuccari, nei giochi di luce e di ombre che provengono dalle finestre del
salotto in cui egli attende la sua donna, nell'odore e nel colore delle rose
amate e torturate dalla bella Elena, in tal senso la descrizione di una
preziosa coperta che diventa per la donna giocondo strumento erotico è
parecchio significativa:
Tra le cose più preziose possedute da
Andrea Sperelli era una coperta di seta fina, d'un colore azzurro disfatto,
intorno a cui giravano i dodici segni dello Zodiaco in ricamo, con le
denominazioni Aries, Taurus, Gemini, Cancer, Leo, Virgo, Libra, Scorpius,
Arcitenens, Caper, Amphora, Pisces a caratteri gotici. Il Sole trapunto d'oro
occupava il centro del cerchio; le figure degli animali, disegnate con uno
stile un po' arcaico che ricordava quello de' musaici, aveva uno splendore
straordinario; tutta quanta la stoffa pareva degna d'ammantare un talamo
imperiale. Essa, infatti, proveniva dal corredo di Bianca MariaSforza, nipote
di Ludovico il Moro; la quale andò in sposa all'imperator Massimiliano. La
nudità di Elena non poteva, in verità, avere una più ricca ammantatura.
Talvolta, mentre Andrea stava nell'altra stanza, ella si svestiva in furia, si
distendeva nel letto, sotto la coperta mirabile; e chiamava forte l'amante. Ed a
lui che accorreva ella dava imagine d'una divinità avvolta in una zona di
firmamento. Anche, talvolta, volendo andare innanzi al camino, ella levavasi
dal letto traendo seco la coperta. Freddolosa, si stringeva addosso la seta,
con ambo le braccia; e camminava a piedi nudi, con passi brevi, per non
implicarsi nelle pieghe abbondanti. Il Sole splendevale su la schiena, a
traverso i capelli disciolti; lo Scorpione le prendeva una mammella; un gran
lembo zodiacale strisciava dietro di lei, sul tappeto, trasportando le rose,
s'ella le aveva già sparse.[7]
La passione che unisce i due giovani amanti è piena,
e senza impedimenti, dal momento che Elena è libera da qualsiasi unione
coniugale, eppure questa bellissima donna, più matura di Andrea di qualche
anno, fisicamente perfetta, composta e studiata in ogni suo atto, non sarà mai
completamente sua, accadrà semmai l'esatto contrario. Elena ( portatrice in tal senso di un nome parlante) è l'incarnazione dell'amore
che si nutre di piacere e fa male, nella sua pienezza erotica, carica di verità
e di affettazione, ma a ben vedere è anche la personificazione del calcolo e
dell'interesse, infatti non si farà scrupoli ad abbandonare Andrea per
contrarre matrimonio con un Lord inglese e mantenere il suo agiato tenore di
vita.
Lo Sperelli invece è totalmente avvinto da questa
passione, ha la certezza che la sua vita sia legata indissolubilmente a quella
della donna:
Ambedue, mirabilmente formati nello
spirito e nel corpo all'esercizio di tutti i più alti e più rari diletti,
ricercavano senza tregua il Sommo, l'Insuperabile, l'Inarrivabile; e giungevano
così oltre, che talvolta una oscura inquietudine li prendeva pur nel colmo
dell'oblio, quasi una voce d'ammonimento salisse dal fondo dell'essere loro ad
avvertirli d'un ignoto castigo, d'un termine prossimo. Dalla stanchezza
medesima il desiderio risorgeva più sottile, più temerario, più imprudente;
come più s'inebriavano, la chimera del loro cuore ingigantiva, s'agitava,
generava nuovi sogni; parevano non trovar riposo che nello sforzo, come la fiamma
non trova la vita che nella combustione. Talvolta, una fonte di piacere
inopinata aprivasi dentro di loro, come balza d'un tratto una polla viva sotto
le calcagna d'un uomo che vada alla ventura per l'intrico d'un bosco; ed essi
vi bevevano senza misura, finché non l'avevano esausta. Talvolta, l'anima,
sotto l'influsso dei desiderii, per un singolar fenomeno d'allucinazione,
produceva l'imagine ingannevole d'una esistenza più larga, più libera, più
forte, « oltrapiacente »; ed essi vi s'immergevano, vi godevano, vi respiravano
come in una loro atmosfera natale. Le finezze e le delicatezze del sentimento e
dell'imaginazione succedevano agli eccessi della sensualità.
Ambedue non avevano alcun ritegno alle
mutue prodigalità della carne e dello spirito. Provavano una gioia indicibile a
lacerare tutti i veli, a palesare tutti i segreti, a violare tutti imisteri, a
possedersi fin nel profondo, a penetrarsi, a mescolarsi, a comporre un essere
solo.
- Che strano amore! - diceva Elena,
ricordando i primissimi giorni, il suo male, la rapida dedizione. - Mi sarei
data a te la sera stessa ch'io ti vidi.
Ella ne provava una specie d'orgoglio. E
l'amante diceva:
- Quando udii, quella sera, annunziare
il mio nome accanto al tuo, su la soglia, ebbi, non so perché, la certezza che
la mia vita era legata alla tua, per sempre![8]
Se la passione è unica, il modo di comprenderla e
interpretarla da parte dei due protagonisti è differente, per Elena è uno
"strano amore" osservato in prospettiva passata, senza pensare al
futuro, ma rileggendone i "primissimi giorni" insieme all'elegia
romana di Goethe; Andrea invece ne percepisce e ne esprime la dimensione
eterna, che tuttavia non sarà condivisa, innescando la vera trama de Il
Piacere.
La storia d'amore di Elena e Andrea è di fatto perfetta,
completa e conclusa come la figura geometrica del quadrato, nella sua
perfezione teatrale essa ha un inizio, uno svolgimento, e una conclusione immodificabile,
che occupa buona parte del primo libro romanzo, ad essa fungono quasi da
appendice le passioni sfuggenti delle quali Andrea si nutre per dimenticare
Elena, studiate e consumate dal giovane senza entusiasmo, fino a sfiorare la
tragedia del duello d'onore che, pur non uccidendolo, lo costringerà a una lunga
convalescenza.
La convalescenza e' una purificazione e
un rinascimento. Non mai il senso della vita è soave come dopo l'angoscia del
male; e non mai l'anima umana più inclina alla bontà e alla fede come dopo aver
guardato negli abissi della morte. Comprende l'uomo, nel guarire, che il
pensiero, il desiderio, la volontà, la conscienza della vita non sono la vita.
Qualche cosa è in lui più vigile del pensiero, più continua del desiderio, più
potente della volontà, più profonda anche della conscienza; ed è la sostanza,
la natura dell'essere suo. Comprende egli che la sua vita reale è quella, dirò
così, non vissuta da lui; è il complesso delle sensazioni involontarie,
spontanee, incoscienti, istintive; è l'attività armoniosa e misteriosa della
vegetazione animale; è l'impercettibile sviluppo di tutte le metamorfosi e di
tutte le rinnovellazioni. Quella vita appunto in lui compie i miracoli della
convalescenza: richiude le piaghe, ripara le perdite, riallaccia le trame
infrante, rammenda i tessuti lacerati, ristaura i congegni degli organi,
rinfonde nelle vene la ricchezza del sangue, riannoda su gli occhi la benda
dell'amore, rintreccia d'intorno al capo la corona de' sogni, riaccende nel
cuore la fiamma della speranza, riapre le ali alle chimere della fantasia.
Dopo la mortale ferita, dopo una specie
di lunga e lenta agonia, Andrea Sperelli ora a poco a poco rinasceva, quasi con
un altro corpo e con un altro spirito, come un uomo nuovo, come una creatura
uscita da un fresco bagno letèo, immemore e vacua. Parevagli d'essere entrato
in una forma più elementare. Il passato per la sua memoria aveva una sola
lontananza, come per la vista il cielo stellato è un campo eguale e diffuso
sebbene gli astri sian diversamente distanti. I tumulti si pacificavano, il
fango scendeva dall'imo, l'anima facevasi monda; ed egli rientrava nel grembo
della natura madre, sentivasi da lei maternamente infondere la bontà e la
forza.[9]
L'immaginaria località
marittima di Schifanoja, in cui Andrea trova ospitalità presso la villa della
cugina, Donna Francesca D'Ateleta, per l'intera estate e per parte dell'autunno,
è di fatto un teatro naturale, privo delle sovrastrutture dell'alta società
romana, in essa il giovane passa i mesi della sua convalescenza, nutrendosi
dello spettacolo della natura marina e reinterpretandola attraverso il proprio
codice di comportamento: la sua purificazione è reale nella misura in cui è
altrettanto reale l'adattamento che egli compie tra la sua natura e quella che
lo circonda, il che si traduce in una personale lettura letteraturizzata dei
paesaggi, diversi dagli ambienti cittadini e tuttavia colorati dalla sua sensibilità
urbana.
Il fatto che Andrea si
senta rinascere non implica che abbia modificato il suo modo di porsi davanti
alle cose. Proprio in questo nuovo teatro, nello smagliante mese di settembre, quando
ancora l'estate non muore completamente, seppur avvolta dai primi languori autunnali,
lo coglierà una nuova delicata passione, per una donna sposata e madre di una
bambina, Maria Ferres, cara amica e gradita ospite di sua cugina.
In Maria, donna dal
fascino ambiguamente dolce e spirituale (come tutto spirituale è il suo nome), dai neri e folti capelli
viola-acciaio, e dalla voce "bisessuale, duplice, androginica" Andrea
riconosce gli accenti dell' altra, come d'Annunzio chiama in questa circostanza
Elena Muti, senza nominarla, perchè questa scena estiva è di Maria, sebbene
essa, per il subconscio di Andrea, non
sia altro che un puro e romantico surrogato, privo (apparentemente) di implicazioni
sessuali. In tal modo l'amore che il giovane sente nascere in cuor suo per la
bella Maria, gli appare puro e intellettuale, un sentimento quasi stilnovista:
- L'amo? Ed ella
che pensa? E s'ella vien sola, le dirò io che l'amo? - Godeva interrogar sé
medesimo e non rispondere e interrompere la risposta del cuore con una nuova domanda
e prolungare quella fluttuazione tormentosa e deliziosa a un tempo. - No, no,
io non le dirò che l'amo. Ella è sopra tutte le altre.
Si
volse; e vide ancóra, in sommo, nella loggia, nel sole, la forma di lei,
indistinta. Ella, forse, l'aveva seguito con gli occhi e col pensiero fin là
giù, assiduamente. Per una curiosità infantile egli pronunziò a voce chiara il
nome, su la terrazza solitaria; lo ripeté due o tre volte, ascoltandosi. -
Maria! Maria! - Nessuna parola giammai, nessun nome eragli parso più soave, più
melodioso, più carezzevole. E pensò che sarebbe stato felice s'ella gli avesse
permesso di chiamarla semplicemente Maria, come una sorella. Quella creatura
così spirituale ed eletta gli inspirava un senso di devozione e di sommessione,
altissimo. Se gli avessero chiesto quale cosa sarebbegli stata più dolce, avrebbe
risposto con sincerità: - Obedirla. - Nessuna cosa gli avrebbe fatto dolore
quanto l'esser da lei creduto un uomo comune. Da nessuna altra donna, quanto da
lei, avrebbe voluto essere ammirato, lodato, compreso nelle opere
dell'intelligenza, nel gusto, nelle ricerche, nelle aspirazioni d'arte, negli
ideali, nei sogni, nella parte più nobile del suo spirito e della sua vita. E
l'ambizione sua più ardente era di riempirle il cuore.[10]
La spiritualità di
Maria Ferres si contrappone quindi alla carnale sensualità della divina Elena Muti,
tuttavia ciò non significa che la sua rappresentazione sia eterea ed effimera,
tutt'altro. Di Elena il lettore osserva le movenze e percepisce il fascino, ma
non ne conosce il pensiero, se non nella misura in cui si esplica nelle azioni
della donna, Elena affascina senza essere mai pienamente afferrata nella sua
essenza né da Andrea, né dal lettore, è in un certo qual modo una presenza
ingombrante che riempie di sé tutte le pagine del romanzo, anche quando è
assente.
Maria è invece un personaggio femminile che D'Annunzio
indaga nel profondo, andando a rovistare nelle pagine del suo diario e
mostrando in tal modo ai lettori i recessi della sua anima di donna e madre,
turbata e man mano conquistata dai modi di Andrea e dalla sua romantica
cerebralità. Maria vive nelle sue emozioni e nei suoi punti di vista, per cui,
oltre a essere personaggio a tutto tondo del Piacere, ne è attrice confusa e
trasognata, anche più dello stesso Andrea.
Di fatto, attraverso le
pagine del suo "Giornale intimo" la donna prende la parola
nell'intera quarta parte del secondo libro, e la sua delicata femminilità
temperata dalla maternità non ha nulla di insincero o artefatto. D'Annunzio si immedesima
pienamente nell'animo femminile, distillandone le emozioni, scoprendone i timori
e le gelosie e mimandone gli eccessi; l'autore raccoglie dalla sua penna
l'episodio della dichiarazione d'amore di Andrea che ha già raccontato nella
terza parte del secondo libro, in un singolare accostamento di punti di vista:
25 settembre. -
Mio Dio, mio Dio!
Quando egli mi
ha chiamata, con quella voce, con quel tremito, io ho creduto che il cuore mi
si fosse disciolto nel petto e ch'io fossi per venir meno. - Voi non saprete
mai - egli ha detto - non saprete mai fino a qual punto la mia anima è vostra.
Eravamo nel
viale delle fontane. Io ascoltavo le acque. Non ho visto più nulla; non ho
udito più nulla; m'è parso che tutte le cose si allontanassero e che il suolo
si affondasse e che si dileguasse con loro la mia vita. Ho fatto uno sforzo
sovrumano; e m'è venuto alle labbra il nome di Delfina, e m'è venuto un impeto
folle di correre a lei, di fuggire, di salvarmi. Ho gridato tre volte quel
nome. Negli intervalli, il mio cuore non palpitava, i miei polsi non battevano,
dalla mia bocca non usciva il respiro...
26 settembre.- E
vero? Non è un inganno del mio spirito fuorviato? Ma perché l'ora di ieri mi
par così lontana, così irreale?
Egli parlò, di
nuovo, a lungo, standomi vicino, mentre io camminava sotto gli alberi, trasognata.
Sotto quali alberi? Era come s'io camminassi nelle vie segrete dell'anima mia, tra
fiori nati dall'anima mia, ascoltando le parole d'uno Spirito invisibile che un
tempo si fosse nutrito dell'anima mia.
Odo ancóra le
parole soavi e tremende.
Egli diceva: -
Io rinunzierei a tutte le promesse della vita per vivere in una piccola parte del
vostro cuore...
Diceva: - ...
fuor del mondo, interamente perduto nel vostro essere, per sempre, fino alla morte...
Diceva: - La
pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara della passione di qualunque altra...
- La sola
presenza vostra visibile bastava a darmi l'ebrezza; e io la sentiva fluire
nelle mie vene, come un sangue, e invadere il mio spirito, come un sentimento
sovrumano...
27 settembre. -
Quando, sul limite del bosco, egli colse questo fiore e me l'offerse, non lo chiamai
Vita della mia vita?
Quando
ripassammo pel viale delle fontane, d'innanzi a quella fontana, dove egli prima
aveva parlato, non lo chiamai Vita della mia vita?
Quando tolse la
ghirlanda dall'Erma e la rese a mia figlia, non mi fece intendere che la Donna
inalzata ne' versi era già decaduta e che io sola, io sola ero la sua speranza?
Ed io non lo chiamai Vita della mia vita?[11]
In Maria Ferres d'Annunzio mette alla prova la sua
capacità di immedesimazione nel sesso femminile, e dimostra di possedere un'
alta e profonda femminilità, quell'"alta femminilità" indispensabile
per essere un poeta onesto che Umberto Saba, nello scritto esegetico del 1911 Quello che resta da fare ai poeti,
contrappone criticamente alla "virilità abbietta dei conquistatori e d'imperi"[12]
cantata mirabilmente e discutibilmente proprio da d'Annunzio.
Maria è dunque una figura portatrice di significati
metaletterari affatto trascurabili. In essa d'Annunzio non cerca certamente
alcun riscatto, dà piuttosto prova di non essere solo il cantore esasperante e
modaiolo del panismo e superuomo, e di sapersi adattare alla psiche e alla
sensibilità femminile senza colorarla di esagerazioni; mostra quindi una
sensibilità artistica e un'abilità ritrattistica che non si circoscrive certo a
questo personaggio, ma che in esso trova una palese dimostrazione d'intenti.
Il terzo e il quarto libro del romanzo segnano il ritorno di Andrea alla vita
romana, per cui il giovane seduttore si rituffa letteralmente nel Piacere, cercando
di recuperare e di portare addirittura all'eccesso i codici comportamentali che
aveva messo da parte nella cornice idilliaca di Schifanoja.
Nel momento in cui la salvifica Maria si trasferisce
a Roma con la sua famiglia non può fare a meno di essere inconsapevolmente
catturata nella rete di un Andrea Sperelli che ha riscoperto in se stesso
l'antica passione per Elena Muti, la quale si è anch'essa trasferita nella
Capitale con il marito Lord Heathfield per passarvi l'inverno.
La divina
Elena, pur provocando il suo antico amante, non ha tuttavia intenzione di
concedersi nuovamente a lui, e non certo per fedeltà nei confronti del suo
"Mups", che infatti tradirà proprio con un caro amico di Andrea,
Galeazzo Secinaro; Elena ha perfettamente compreso che la sua parentesi di
passione si è conclusa, e le sue provocazioni sono solo dei frivoli e crudeli
divertimenti dettati dal suo amor proprio.
Andrea dal canto suo non riesce a darsi pace,
fissandosi al ricordo di una passione che non esiste più e cercando di giocare
una doppia partita in cui vuole possedere fisicamente e intellettualmente Elena
e Maria, ma non si rende conto che questo gioco supera di gran lunga le sue
possibilità; il giovane non accetta di arrendersi alla verità dei suoi
sentimenti che lo porterebbe a una necessaria solitudine, e si scontra inevitabilmente
con il cinismo di Elena che diviene crudeltà, in quello che è il loro ultimo
incontro nel romanzo, avvenuto dopo che lo Sperelli è stato invitato da Lord
Heathfield a visionare la sua biblioteca di rari libri erotici:
Quando Lord Heathfield si levò ed uscì,
egli proruppe, con la voce roca, afferrandole un polso, avvicinandosi a lei
così da sfiorarla con l'alito veemente:
- Io perdo la ragione... Io divento
folle... Ho bisogno di te, Elena... Ti voglio...
Ella liberò il polso, con un gesto
superbo. Poi disse, con una terribile freddezza:
- Vi farò dare da mio marito venti
franchi. Uscendo di qui, potrete sodisfarvi.
Lo Sperelli balzò in piedi, livido.
Lord Heathfield rientrando chiese:
- Ve ne andate già? Che avete mai?
E sorrise del giovine amico, poiché egli
conosceva gli effetti de' suoi libri.
Lo Sperelli s'inchinò. Elena gli offerse
la mano, senza scomporsi.[13]
Vittima consapevole dell'incapacità del giovane di
gestire i propri sentimenti con onestà, Maria si scopre gelosa del suo passato,
percepisce che quello della passione per Elena Muti è un fantasma ancora
presente e pressante, ma cerca disperatamente di illudersi della sincerità dei
gesti e delle parole di Andrea, preparandosi a diventare un'adultera, non solo
spiritualmente ma anche fisicamente; d'Annunzio ne osserva i turbamenti di
donna e li riporta sulla carta con un' eccezionale forza espressiva e mimetica:
Da che ella
aveva ceduto al desiderio di Andrea, il suo cuore si agitava in una felicità
solcata d'inquietudini profonde; tutto il suo sangue cristiano s'accendeva alle
voluttà della passione non mai provate e s'agghiacciava agli sbigottimenti
della colpa. La sua passione era altissima, soverchiante, immensa; così fiera
che spesso per lunghe ore le toglieva la memoria della figlia. Ella giungeva ad
obliare Delfina, talvolta; a trascurarla! Ed aveva poi subitanei ritorni di
rimorso, di pentimento, di tenerezza, in cui ella copriva di baci e di lacrime
la testa della figlia attonita, singhiozzando con un dolor disperato, come
sopra la testa d'una morta.
Tutto il suo
essere s'affinava alla fiamma, si assottigliava, si acuiva, acquistava una
sensibilità prodigiosa, una specie di lucidità oltraveggente, una facoltà
divinatoria che le dava strane torture. Quasi ad ogni inganno di Andrea, ella
si sentiva passare un'ombra su l'anima, provava una inquietudine indefinita che
talvolta addensandosi prendeva forma d'un sospetto. E il sospetto la mordeva,
le rendeva amari i baci, acre ogni carezza, finché non si dileguava sotto gli
impeti e gli ardori dell' incomprensibile amante.
Ella era gelosa.
La gelosia era il suo spasimo implacabile, la gelosia, non pur del presente, ma
del passato. Per quella crudeltà che le persone gelose hanno contro sé stesse,
ella avrebbe voluto leggere nella memoria di Andrea, scoprirne tutti i ricordi,
vedere tutte le tracce segnate dalle antiche amanti, sapere, sapere. La domanda
che più spesso le correva alle labbra, quando Andrea taceva, era questa: - A
che pensi? - E mentre ella profferiva le tre parole, inevitabilmente l'ombra le
passava negli occhi e su l'anima, inevitabilmente un flutto di tristezza le si
levava dal cuore.
Anche quel
giorno, all'improvviso sopraggiungere di Andrea, non aveva ella avuto in fondo
a sé un istintivo moto di sospetto? Anzi un pensier lucido erale balenato nello
spirito: il pensiero che Andrea venisse dalla casa di Lady Heathfield, dal
palazzo Barberini.
Ella sapeva che
Andrea era stato l'amante di quella donna, sapeva che quella donna si chiamava
Elena, sapeva infine che quella era la Elena dell'inscrizione. « Ich lebe!... »
Il distico del Goethe le squillava forte sul cuore. Quel grido lirico le dava
la misura dell'amor d'Andrea per la bellissima donna. Egli doveva averla
immensamente amata![14]
La stessa forza espressiva dell'autore si tempera di
una lieve sardonica ironia mentre osserva lo stato d'animo di Andrea, esasperato
dal gioco dissimulatorio, che si è fatto più grande di lui e lo avvince in modo
sempre più forte alla povera Maria; di fatto il possesso reale di lei
equivarrebbe in un certo senso a quello immaginario di Elena, e l'idea che
l'improvvisa rovina al gioco del marito della Ferres, potrebbe portargli via
anche l'altra sua donna rappresenta per Andrea un'eventualità insopportabile,
ma reale che lo spingerà alla seduzione finale e miseramente fallita di Maria:
Andrea, dopo lo
sforzo della dissimulazione, si sentiva pesare il cuore su per la scala,
orribilmente. Credeva di non poterlo trascinare alla sommità. Ma egli era
sicuro omai che, in seguito, il Secìnaro gli avrebbe tutto confidato; e quasi
gli pareva d'aver ottenuto un vantaggio! Per una specie di ubriachezza, per una
specie di follia datagli dall'eccesso della sofferenza, egli andava ciecamente
incontro a torture nuove e sempre più crudeli e sempre più insensate,
aggravando e complicando in mille modi le condizioni del suo spirito, passando
di pervertimento in pervertimento, di aberrazione in aberrazione, di atrocità
in atrocità, senza potersi più arrestare, senza avere un attimo di sosta nella
caduta vertiginosa. Egli era divorato come da una febbre inestinguibile che
facesse schiudere col suo calore negli oscuri abissi dell'essere tutti i germi
delle abiezioni umane. Ogni pensiero, ogni sentimento portava la macchia. Egli
era tutto una piaga.
Eppure,
l'inganno medesimo lo legava forte alla donna ingannata. Il suo spirito erasi
così stranamente adattato alla mostruosa comedia, che quasi non concepiva più
altro modo di piacere, altro modo di dolore. Quella incarnazione di una donna
in un'altra non era più un atto di passione esasperata ma era un'abitudine di
vizio e quindi un bisogno imperioso, una necessità. E l'istrumento
inconsapevole di quel vizio era divenuto quindi per lui necessario come il
vizio medesimo. Per un fenomeno di depravazion sensuale, egli era quasi giunto
a credere che il real possesso di Elena non gli avrebbe dato il godimento acuto
e raro datogli da quel possesso imaginario. Egli era quasi giunto a non poter
più separare, nell'idea di voluttà, le due donne. E come pensava diminuita la
voluttà nel possesso reale dell'una, così anche sentiva tutti i suoi nervi
ottusi quando, per una stanchezza dell'imaginazione, egli trovavasi innanzi
alla forma reale immediata dell'altra.
Perciò egli non
resse al pensiero che Maria dalla ruina di Don Manuel Ferres gli fosse tolta.[15]
La commedia di Andrea è di fatto una tragedia, in
cui Maria rappresenta l'olocausto, che
sfugge impietrito all'estremo sacrificio dell'adulterio fisico perché, nel
momento in cui sta per consumarsi l'unico amplesso tra i due, il giovane, in
preda a un "cupo ardore", nascondendo "il viso, perdutamente,
nel seno, nel collo, ne' capelli di lei, ne' guanciali" porta a
compimento l'auspicata sovrapposizione
tra la figura di Elena e quella di Maria, invocando il nome del suo unico e
vero amore, mentre possiede quello che ne è sempre stato un innocente,
spirituale surrogato.
Il
Piacere è senza alcun dubbio il romanzo della seduzione e
dell'inettitudine, della frivolezza e della demistificazione dell'aristocrazia
della Belle epoque, ma è soprattutto
una grande prova di scrittura, in cui d'Annunzio profonde la sua arte,
arrivando anche all'eccesso espressivo per far immedesimare pienamente il
lettore nelle atmosfere e negli stati d'animo di cui è ideatore e regista.
Nessuna espressione è quindi fine a se stessa né tantomeno insincera, in questa difficile rappresentazione romanzesca e teatrale,
portatrice di intenti narrativo-descrittivi e critici, incastonati
nell'opulenza di parole talvolta faticose ma terse di una luce tanto fittizia
quanto rivelatrice di significati che il narratore non è tenuto a spiegarci ma
semplicemente a mostrarci.
Al lettore non resta che il difficile compito di
decifrarlo o di banalizzarlo, perdendosi in questo smagliante labirinto di
espressioni e sentimenti.
[1] SI veda in tal senso L'Altro di Gozzano: "L'Iddio che a tutto provvede/ poteva farmi poeta/ di fede; l'anima queta/ avrebbe cantata la fede./
Mi è strano l'odore d'incenso:/ ma pur ti perdono l'aiuto/ che non mi
desti, se penso/ che avresti anche potuto, / invece di farmi gozzano/ un po'
scimunito, ma greggio,/ farmi gabrieldannunziano:/ sarebbe stato
ben peggio!/ Buon Dio, e puro conserva/ questo mio
stile che pare/ lo stile d'uno scolare/ corretto un po'
da una serva./ Non ho nient'altro di bello/ al mondo, fra
crucci e malanni!/ M'è come un minore fratello,/ un altro
gozzano: a tre anni./ Gli devo le ore di gaudi/ più dolci! Lo
tengo vicino;/ non cedo per tutte Le Laudi/ quest'altro
gozzano bambino!/ Gli prendo le piccole dita,/ gli faccio vedere pel
mondo/ la cosa che dicono Mondo,/ la cosa che dicono Vita... " In G. Gozzano, Poesie sparse, in Tutte
le poesie, a cura di A. Rocca, Mondadori, Milano 2006
[2] Leggere I limoni, chiarisce subito i l destinatario delle
critiche montaliane e il senso del suo programma di "torcere il collo
all'eloquenza", l'attraversamento di d'Annunzio compiuto dall'autore, e
prima di lui da Gozzano e dai crepuscolari, è messo in evidenza in un altro suo
celebre scritto che sottolinea l'importanza di quest'atto compiuto proprio dal
giovane Gozzano "Colto, intrinsecamente colto se anche di non eccezionali
letture, ottimo conoscitore dei suoi limiti, naturalmente dannunziano, ancor
più naturalmente disgustato del dannunzianesimo, egli fu il primo dei poeti del
Novecento che riuscisse(com'era necessario e come probabilmente lo fu anche
dopo di lui) ad «attraversare D'Annunzio»per approdare a un territorio suo,
così come, su scala maggiore, Baudelaire aveva attraversato Hug oper gettare le
basi di una nuova poesia". E. Montale Gozzano dopo trent’anni,
1951, in Giorgio Zampa (a cura di) Sulla poesia, Milano, 1976.
[3] Il Bianco Immacolato Signore, In U. Saba, Tutte le prose, Mondadori, Milano 2008, pag.494
[4] Ovvero, chiunque abbia
frequentato le scuole superiori; ma a ben vedere questa riflessione vale anche
per chi ha affrontato un percorso accademico comprendente le materie
umanistiche.
[5] G. d'Annunzio Il Piacere, Morano editore, Napoli-Milano
1995, p.158
[6] Ivi, pag. 43
[7] Ivi p.97.
[9] Ivi, p. 145.
[10] Ivi pp.181-182.
[12] U. Saba, Tutte le prose, cit. p.681.
[13] G. d'Annunzio, Il
Piacere, cit., p. 344.
[15] Ivi, p.358.